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Un'immagine dei monaci martiri di Tibhirine (fratel Luc è il primo a drestra) Un'immagine dei monaci martiri di Tibhirine (fratel Luc è il primo a drestra)

Fratel Luc, il medico dei poveri martire a Tibhirine

La Libreria Editrice Vaticana pubblica in italiano la biografia di fratel Luc, trappista, medico e martire. Figura chiave della comunità dei monaci di Tibhirine, fu ucciso nel 1996 dai rapitori islamisti durante la guerra civile algerina. Per cinquant’anni ha curato e aiutato la popolazione locale nel suo dispensario, diventando punto di riferimento per cristiani e musulmani. La sua vita racconta una fede vissuta in semplicità e coraggio. Una testimonianza di speranza cristiana anche per oggi

Fabio Colagrande - Città del Vaticano

L’ultimo desiderio di fratel Luc, “per quando verrà il momento del passaggio”, era riascoltare la voce di Edith Piaf che canta: Non, je ne regrette rien, “No, non rimpiango nulla”. Ma è improbabile che prima di essere trucidato dai suoi rapitori, assieme a sei confratelli trappisti, nel deserto algerino nel maggio 1996, abbia potuto esaudirlo. “Sono un vecchio muro pendente che presto si sgretolerà”, scriveva dieci anni prima di morire. Eppure, come scriveva mons. Teissier, già arcivescovo di Algeri, nella postfazione del libro Fratel Luc di Tibhirine - Monaco, medico e martire, di Christophe Henning e Thomas Georgeon, pubblicato in Francia nel 2011, “è lecito chiedersi se la comunità avrebbe potuto mantenere la sua decisione di restare senza il coraggio, la calma, la fede e la disponibilità al servizio e alla vita monastica di fratel Luc”.

Tibhirine, monaci e martiri della fraternità

Chi conosce già la straordinaria storia di fede, spiritualità e umanità dei cosiddetti “martiri di Tibhirine”, sette monaci trappisti sequestrati dal loro Monastero di Notre-Dame de l’Atlas, in Algeria, nel marzo 1996, uccisi dopo 56 giorni di prigionia e beatificati nel 2108, sa quanto la testimonianza spirituale di questo monaco “converso”, medico e cuoco a Tibhirine dal 1946, sia fondamentale. Bene ha fatto dunque la Libreria editrice vaticana a pubblicare la traduzione italiana di questa sua biografia, curata da Anna Pozzi, e introdotta da una prefazione del cardinale Jean-Paul Vesco, attuale arcivescovo di Algeri, che ricorda come Luc, all’anagrafe Paul Dochier, sia rimasto “nel cuore degli abitanti del villaggio di Tibhirine e dei dintorni sino a oggi”.

Il volume della Lev dedicato a fratel Luc
Il volume della Lev dedicato a fratel Luc

Dalla medicina alla scelta monastica

Nato nel 1914 a Bourg-de-Péage, nel sud-est della Francia, dopo gli studi in medicina a Lione, perde il fratello ed entra in contatto con le popolazioni povere del Marocco durante il servizio militare. Vicende che lo spingono nel 1941 scegliere la vita monastica. Entra così nell’abbazia cistercense di Aiguebelle come fratello converso, rinunciando al sacerdozio e ai privilegi riservati ai monaci "coristi". Durante la Seconda guerra mondiale, si offre volontario per prendere il posto di un amico padre di famiglia in un campo di prigionia tedesco. Lì, esercita la medicina in condizioni estreme, e, tornato alla vita monastica, nel 1946 è inviato in Algeria, dove vive per cinquant’anni, fino al martirio.

Un dispensario, una missione: curare e ascoltare

Qui è una figura centrale, anche se sempre defilata. Medico di corpi e anime, gestisce da solo un dispensario dove cura centinaia di persone ogni settimana con pochi mezzi, offrendo medicine, ma soprattutto ascolto, compassione, parole sagge e buone. La sua scelta di restare fratello laico lo rende più libero di servire concretamente i poveri, al di fuori dei rigidi ritmi monastici e diviene punto di riferimento per la popolazione musulmana locale, che lo rispetta profondamente. Malato e anziano, negli anni ’90 vive con coraggio l’escalation della violenza in Algeria e, pur consapevole dei rischi, sceglie di restare vicino alla popolazione poverissima della zona, dicendo: “In questo naufragio io voglio restare con loro”.

Le tombe dei monaci martiri di Tibhirine in Algeria
Le tombe dei monaci martiri di Tibhirine in Algeria

L’ironia, la fragilità e la capacità di dare speranza

Una religiosa che è stata più volte a Tibhirine, commenta così la sua incessante opera di soccorso: “Si sentiva che portava sulle spalle la sofferenza del mondo, ma che in lui raggiungeva il cuore di Dio”. “Ancora oggi – spiega l’eremita Robert Fouquez, a lungo tra le montagne algerine – la gente si chiede perché è stato assassinato. Nella mente delle persone resta l’uomo provvidenziale, capace, non solo attraverso le diagnosi, ma anche con il contatto umano, di ridare fiducia, di ridare speranza”. Per lui, spiegano gli autori, non c’erano “ribelli, né guerriglieri, né buoni, né cattivi, ma un malato, un ferito, un paziente che ha bisogno del suo aiuto”. Ma costantemente sollecitato dai malati, sapeva lasciarsi andare anche a taglienti ironie “Se avessi scioccato gli altri quanto gli altri hanno scocciato me, io stesso mi sarei gettato subito all’inferno”, confidava a un confratello.

La pentola sul fuoco: la cura fino all’ultimo minuto

Fratel Jean-Pierre, uno dei due trappisti di Tibhirine scampati al martirio, raccontava nel volume che ispezionando i locali del monastero dopo il passaggio dei rapitori, il 27 marzo 1996, scoprirono “una pentola da trenta litri contenente fagioli rossi e, in un’altra, la minestra”. “Fratel Luc aveva già cucinato prima di essere trascinato in quella crudele avventura con gli altri fratelli. Era l’una e un quarto di notte: devozione alla comunità”.

Scriveva fratel Luc in una lettera del novembre 1993, tre anni prima del suo martirio: “Qui la situazione è preoccupante, forse sarà pericolosa per il futuro… La morte sarebbe una testimonianza resa all’assoluto di Dio. Sono come un vecchio cappotto, consumato, strappato, rattoppato, ma lì dentro la mia anima canta ancora”.

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05 giugno 2025, 13:30