Afghanistan, il racconto dei testimoni: sopravvissuti isolati e donne senza cure
Federico Piana- Città del Vaticano
Le due, potenti, scosse d’assestamento che ieri sera e nella notte hanno gettato di nuovo nel panico l’Afghanistan si sono avvertite perfettamente addirittura fino a Kabul. «E pensare che la capitale del Paese, dove mi trovo, dista dall’epicentro del sisma, la vasta area di Jalalabad, più di 150 chilometri. Ora stiamo in attesa di sapere se ci sono altri danni, altri morti».
Situazione più drammatica
Quando Claudio Miglietta, capomissione di Medici Senza Frontiere nella nazione asiatica, riesce ad entrare in contatto con i media vaticani, la tragica conta delle vittime del terremoto del 31 agosto scorso ha superato i 2.200 morti e i 4.000 feriti. Da un momento all’altro, Miglietta si aspetta che gli operatori umanitari della sua Ong — che opera in Afghanistan dal 1980 con ospedali e strutture mediche specializzate — possano comunicargli un peggioramento della situazione: «Il terremoto ha colpito duramente soprattutto i villaggi delle zone montane, molto difficili da raggiungere. Lì non ci sono strade e le condizioni meteorologiche di queste ore non sono favorevoli».
Maltempo in agguato
A complicare le cose, infatti, ci si sono messe anche delle violente inondazioni che stanno spazzando via qualsiasi cosa sia rimasta in piedi. Facile, dunque, intuire come i soccorritori ancora non siano riusciti a mettere in salvo migliaia di sopravvissuti e tirare fuori i corpi rimasti sepolti dalle macerie. Testimoni oculari raccontano di una scena ormai diventata una triste consuetudine: ieri, in una cittadina della provincia del Kunar, un’intera famiglia è stata vista scavare a mani nude per tentare di salvare parenti e vicini. «Per ora — rivela Miglietta — solo gli elicotteri dell’esercito afghano sono arrivati in quelle zone. Noi a Jalalabad abbiamo inviato una nostra squadra per valutare le necessità mediche degli ospedali locali che risultano essere totalmente sovraffollati».
Caos generalizzato
Quello che il capomissione di Medici Senza Frontiere è riuscito a scoprire è la conferma di un caos sempre più generalizzato e pericoloso: «Ci sono feriti un po’ ovunque: nei corridoi, abbandonati sulle barelle e perfino per terra. Per tentare di aiutare a decongestionare questi ospedali abbiamo attivato un nostro team chirurgico-traumatologico». Il suo desiderio più grande, però, è soprattutto uno: tentare di far arrivare le sue squadre di soccorso medico in quelle zone impervie dove i sopravvissuti aspettano di essere salvati. «Speriamo entro oggi o domani di poterlo fare nella provincia di Kunar. Ma è molto complicato non solo per questioni logistiche e meteorologiche ma anche perché nella zona ci sono problemi di sicurezza legati a dei gruppi armati che sono in conflitto con le forze governative».
Il dramma delle donne
Poi c’è anche un dramma nel dramma. Nel regime talebano, le donne non possono far nulla senza la presenza di un uomo, neanche uscire di casa. Ecco che, negli ospedali, le donne sole rischiano di non venire curate, addirittura molto spesso nessuno ce le porta. Simona Lanzoni, vicepresidente della Fondazione Pangea Onlus che lavora nel campo dei diritti umani, denuncia con forza ai media vaticani che i suoi operatori presenti in Afghanistan spesso hanno riscontrato questo problema aberrante: «E’ vero: le donne non possono farsi visitare e nemmeno accedere agli aiuti umanitari». Poi, Lanzoni, rivela un episodio emblematico: «In una casa colpita dal terremoto, i nostri operatori hanno trovato una stanza piena di donne, stipate come animali: la famiglia non voleva che fossero viste. La nostra organizzazione si sta attrezzando per poter creare delle equipe mediche femminili per poter soccorre tutte le donne, non solo dal punto di vista sanitario ma anche alimentare».
Alla domanda se Pangea abbia amuto modo di verificare l'arrivo in Afghnaistan degli aiuti umanitari promessi da alcuni Paesi limitrofi, Lanzoni non lascia spazio a dubbi: "Non ne abbiamo visti. Penso che alla base del ritardo ci sia una ragione logistica. Le prime realtà che arrivano sul posto sono sempre le organizzazioni umanitarie".
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