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Bambini in un villaggio della Repubblica Democratica del Congo Bambini in un villaggio della Repubblica Democratica del Congo

Goma, epicentro di una crisi umanitaria che non trova soluzione

Milioni di persone vivono in condizioni estreme nell’est della Repubblica Democratica del Congo. Servizi essenziali al limite, intere famiglie senza sostegno. La popolazione resiste tra fame, sfollamenti e violenze. La testimonianza di Depolin Wabo, operatore umanitario congolese del Vis

Sara Costantini - Città del Vaticano

«Non sappiamo a chi rivolgere le nostre preghiere. Nessuno sa cosa succederà, o se ci sarà una fine vicina». Le parole di Depolin Wabo, operatore umanitario congolese del Volontariato internazionale per lo sviluppo (Vis), arrivano da Goma, nel cuore del Nord Kivu. Una terra, dove lo sconforto si è fatto quotidianità e la speranza, ormai, è un bene raro. La provincia del Nord Kivu, con il capoluogo Goma come centro nevralgico, è l’epicentro di una crisi che non si ferma. Secondo gli ultimi dati, più di 21,2 milioni di persone nel Paese necessitano di assistenza umanitaria. Di queste, 7 milioni sono sfollate interne. Numeri che raccontano di una tragedia continua, alimentata da decenni di instabilità, ora aggravata dalla nuova ondata di violenze portate avanti, in particolare, dal gruppo armato M23 che tra gennaio e febbraio di quest’anno ha occupato ampie parti del territorio del Nord e del Sud Kivu inclusi i capoluoghi Goma e Bukavu. La pace mediata dagli Stati Uniti non sembra in grado di portare un sollievo effettivo alla popolazione martoriata.

Ascolta l'intervista in francese a Depolin Wabo

Una vita di incertezze

Il volto dell’est della Repubblica Democratica del Congo è quello di una madre che torna al villaggio e non trova più la casa. È quello di un bambino che non ricorda più cosa significhi andare a scuola. È quello di chi, pur sopravvivendo, si chiede ogni giorno se domani ci sarà ancora qualcosa da sperare. Le violenze hanno provocato fughe di massa, lasciando dietro di sé villaggi distrutti, famiglie spezzate e un senso crescente di abbandono. Chi riesce a tornare, trova macerie. Alcuni provano a riprendere una parvenza di vita normale, ma senza cibo, senza sicurezza, senza servizi essenziali, la normalità resta un miraggio. «Le cose qui non stanno migliorando in modo positivo — racconta Depolin — siamo stati a Chacha e anche a nord della città di Goma per svolgere un’indagine. La situazione è allarmante. Le persone cercano di riprendere una vita normale, ma ci sono ancora molte sfide. Sono agricoltori e devono coltivare per sopravvivere. Ma quando si coltiva, non si raccolgono i frutti nello stesso giorno. E poi, non c’è garanzia di sicurezza: viviamo ancora nell’incertezza».

Emergenza continua

La vita quotidiana è segnata dalla fame e dall’insicurezza. A causa dell’aumento vertiginoso dei prezzi — fino al 35 per cento a Goma e Bukavu — due famiglie su tre non riescono più ad accedere ai mercati. Secondo i dati del Vis, il 70 per cento delle famiglie consuma meno di due pasti al giorno e, per molti, le scorte alimentari non superano i cinque giorni. «Il denaro non circola. La maggior parte delle persone ha soldi in banca, ma non può accedere al conto corrente. Alcuni per fare un prelievo devono viaggiare, attraversando due o tre paesi, per arrivare a Kinshasa o a Beni. Questa è la vita a Goma», aggiunge Wabo. Ma la crisi non è solo economica o alimentare. È anche educativa. È un’emergenza invisibile che colpisce un’intera generazione. «L’anno scolastico si è interrotto. Alcuni bambini hanno cercato di riprendere, ma non possono recuperare ciò che hanno perso. E ci sono quelli che non hanno più voglia di andare a scuola. Ma come possono riaprire le scuole? Gli insegnanti non sono pagati. I genitori non hanno soldi. Alcune scuole sono state distrutte, diversi villaggi sono stati abbandonati per anni. La situazione è difficile»

Sogni spezzati

Di fronte a questo scenario, i bisogni primari restano fondamentali: cibo, alloggio, protezione. «I bisogni urgenti sono quelli alimentari. Non c’è cibo. E anche se c’è, per comprarlo manca il denaro. Quindi il cibo è una priorità. Ma anche l’alloggio. Molte case sono state bruciate, distrutte dalle bombe, oppure abbandonate. Molti — spiega Wabo — vivono in modo indegno». La guerra ha privato le persone non solo dei loro beni materiali, ma anche della dignità, del ruolo sociale, dei sogni. Come nel caso della donna che Wabo ha incontrato nel villaggio di Chacha. «Durante una nostra indagine, mi sono imbattuto in una signora che avevo già visto a Goma, in un campo di sfollati dove ero in missione — racconta Wabo —. Mi è venuta incontro, l’ho riconosciuta. Mi ha colpito vederla povera; prima aveva una proprietà ed era rispettata nel suo villaggio. Ma la guerra l’ha impoverita. Adesso vive in una piccola capanna con la famiglia. Le figlie non vogliono più studiare, erano ragazze con dei sogni. La madre non ha più nulla solo perché si trovava nella parte sbagliata della Repubblica Democratica del Congo. Ce ne sono molte di storie così. Tante, troppe.»

Piccole speranze 

In questo scenario di dolore e precarietà, il Vis, insieme ai salesiani di Don Bosco, cerca di mantenere viva una fiamma, anche se piccola: quella dell’umanità. «A Goma, non tutti gli sfollati sono tornati nei loro villaggi. Alcuni vivono in famiglie ospitanti, altri si sono integrati nella comunità, ma i loro figli non vanno a scuola e non lavorano. Ci occupiamo di questi bambini. Diamo loro porridge caldo, una o due volte a settimana, per rafforzare la salute. Cerchiamo di creare anche spazi dove possano giocare. Questo il senso del nostro lavoro insieme ai salesiani», racconta Depolin Wabo. La sensazione diffusa è quella di un aiuto che, per quanto prezioso, non può bastare. I bisogni sono troppi, la fragilità radicata. Eppure, resistere è già una forma di speranza. «Siamo stanchi, disillusi, feriti. Ma siamo ancora qui. E dove possiamo, raccontiamo che un futuro è ancora possibile. Anche se, oggi, è complicato crederci».

 

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18 luglio 2025, 14:52