Iran-Israele, il timore dei mercati per il prezzo del petrolio
Roberto Paglialonga - Città del Vaticano
Rischia di avere conseguenze considerevoli sul mercato dell’energia e, in particolare, degli idrocarburi, l’aggravarsi della guerra tra Israele e Iran. Già il primo giorno, quando la crisi è scoppiata per “l’attacco preventivo” israeliano su alcuni siti del programma nucleare iraniano e stazioni petrolifere del Paese, venerdì scorso, il prezzo del greggio è salito di un 7% che ha messo in fibrillazione i mercati finanziari, scossi in precedenza dalle contese sui dazi imposti da Donald Trump. Una reazione istintiva per i timori di una restrizione o interruzione nell’offerta, con i listini borsistici che a loro volta hanno subito perdite significative.
L'aumento del prezzo del petrolio
All’indomani degli attacchi su Teheran, il Brent si è poi apprezzato del 10% circa, stabilizzandosi intorno ai 75 dollari al barile, livello di inizio aprile; mentre il Wti è salito a circa 72 dollari. Nelle ultime ore le indiscrezioni di alcuni funzionari iraniani circa una disponibilità di Teheran a trattare sembravano aver calmato le acque, facendo risalire parzialmente anche gli indici di Borsa. Poi stamattina il prezzo al barile è tornato a rimbalzare in seguito a nuovi attacchi. In sostanza, avvertono gli analisti di Ig Italia, è bene abituarsi a "una fase di fortissima tensione sui mercati" e quindi di "forte volatilità", con sullo sfondo lo spettro di "uno shock energetico globale".
Il rischio della corsa inflazionistica
La dinamica dell’inflazione interessa certamente gli Usa — principali alleati di Israele —, orientati soprattutto a tenere bassi i prezzi dell’energia, dopo le settimane di “rally” dovuti alla guerra commerciale sulle tariffe. Non è un caso forse che, a ben vedere, gli attacchi israeliani abbiano riguardato finora quelle infrastrutture energetiche iraniane dedite soprattutto al servizio del mercato interno: l’intento potrebbe essere quello di fiaccare la società civile, erodendo il consenso verso gli ayatollah. Per quanto, al contrario, azioni sui civili potrebbero invece portare all’effetto opposto, di ricompattare una nazione attorno ai suoi governanti. I terminal dove, invece, si concentra la produzione di greggio destinata all’export — per esempio l’isola di Kharg, nel Golfo — al momento non sono stati presi di mira. Anche se alcuni raid hanno parzialmente colpito lo scalo commerciale marittimo di Bandar Abbas.
La minaccia dell'Iran di chiudere lo Stretto di Hormuz
I prezzi potrebbero schizzare qualora si concretizzassero le minacce iraniane di chiudere lo Stretto di Hormuz. In quel caso, per quanto ritenuto improbabile da diversi analisti, il barile supererebbe abbondantemente i 120 dollari, sostiene il responsabile della ricerca sul mercato valutario di Deutsche Bank, George Saravelos. Per quel passaggio, largo appena 30 miglia nel punto di maggiore strozzatura, che separa l’Iran dalla penisola omanita di Musandam, transitano ogni giorno circa 21 milioni di barili di petrolio, ovvero il 30% del commercio globale di greggio, e una media di più di 3.000 navi. Una sua chiusura bloccherebbe l’export iraniano e metterebbe in sofferenza anche altri Paesi del Golfo, come Arabia Saudita ed Emirati, gli unici capaci di sopperire a eventuali perdite di volumi. La chiusura dello Stretto, insomma, sarebbe una misura drastica, che storicamente non è mai stata presa per le sue alte implicazioni economiche e geopolitiche. E, tra l’altro, Hormuz è fondamentale anche per il trasporto di gas, cosa che interessa direttamente pure l’Europa.
Le ricadute geopolitiche delle tensioni sul mercato dell'oro nero
L’Iran, dei 3,2 milioni di barili al giorno di petrolio che produce, ne esporta quasi 2, posizionandosi come terzo tra i Paesi Opec. Un’interruzione della sua produzione costringerebbe il cartello Opec+ (che include anche quelli che non fanno direttamente parte di Opec) ad alzare le capacità, che sono però già limitate e risulterebbero appena sufficienti a sopperire ai numeri lasciati eventualmente liberi dall’Iran. A questo si aggiunge il peso di Pechino, il principale acquirente di energia da Teheran, che nel 2023 ha facilitato il disgelo nei rapporti proprio tra Iran e Arabia Saudita, e che ha bisogno di continuare ad acquistare oro nero a prezzi contenuti per finanziare la propria industria. E proprio la Cina, dopo aver condannato «la violazione della sovranità iraniana», sta chiedendo prudenza e un allentamento delle tensioni nell’area. Uno scenario di prezzi petroliferi in rialzo, invece, finirebbe probabilmente per avere vantaggi per Mosca, che avrebbe così maggiori entrate per finanziare la guerra in Ucraina, sebbene le sanzioni internazionali e alcune difficoltà tecnologiche non le consentirebbero di accrescere di molto la produzione.
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