Carceri, quando la speranza passa attraverso un campo da calcetto
Roberta Barbi – Città del Vaticano
Il calcio gli è sempre piaciuto: quello tifato allo stadio o guardato in tv, ma anche quello praticato, dal momento che è arrivato fino in serie C con la società Giugliano. D’altronde Germano è nato e cresciuto a Napoli. Mai avrebbe pensato, però, che un giorno, proprio quel calcio l’avrebbe salvato, in carcere, e avrebbe rappresentato l’inizio di una nuova vita.
Siamo a Napoli, ma non bisogna farsi avvolgere dal facile pregiudizio: Germano non viene da una famiglia malavitosa; tutt’altro: suo padre – ironia della sorte – è avvocato penalista e presto anche lui si iscrive a Giurisprudenza, mentre continua a giocare a calcio, ovviamente, e mentre lavora in un panificio per pagarsi gli studi. Poi il matrimonio forse troppo presto, un figlio da mantenere, i soldi che non bastano mai… Ma non vuole sentire quelli che per lui sono soltanto alibi. “Non saprei dire né come né perché mi sono avvicinato al mondo criminale – racconta Germano Capasso ai media vaticani – ma è accaduto. Avevo la sensazione, completamente distorta, di poter fare tutto a discapito degli altri e la certezza che a me non sarebbe capitato mai nullaâ€.
Il carcere non è la fine
Niente di più sbagliato. Ora Germano lo sa e ricorda così quel periodo: “Ero finito in un turbine di emozioni sempre più forti e fatti sempre più grandi, non riuscivo a smettere. Da quella situazione potevo uscire solo in due modi: morto ammazzato oppure in manetteâ€. Per fortuna per Germano la strada imboccata è stata la seconda e per lui si sono aperte le porte del carcere, anzi, di diversi istituti, perché i trasferimenti sono stati molti. “Non venendo da una famiglia della criminalità organizzata avevo ricevuto altri input – descrive la sua vita in carcere da detenuto modello – questo è stato la mia forza. È stato come prendere una botta in testa e dimenticare tutto il buono che avevo imparato in famiglia e poi, con un’altra botta in testa, in carcere, ricordare tutto all’improvvisoâ€.
Darsi da fare con lo sport
Germano capisce presto che in carcere, chi non è intriso di mentalità malavitosa, per sopravvivere deve darsi da fare. “Quando sei detenuto puoi anche fermarti e non fare nulla, nessuno ti obbliga – dichiara – ma io ho cercato di darmi da fare, nel lavoro prima, per dimostrare innanzitutto a me stesso che potevo farcelaâ€. Poi è arrivato lo sport. Nel 2014 Germano è ristretto nella casa circondariale di Lanciano, Chieti, quando vi viene avviato il progetto “Mettiamoci in gioco†ad opera della Lega nazionale dilettanti, e fondata una squadra di calcio a 5, la Libertas Stanazzo, di cui Germano, viste le sue doti, diventa il capitano. “Lo sport in carcere è primario – afferma – ti fa impegnare in qualcosa, socializzare, interagire con gli altri e con il mondo esterno perché incontravamo le squadre che venivano da fuori, ti insegna la collaborazione e il rispetto delle regoleâ€.
Tra passato e un futuro di speranza
Germano torna a essere un uomo libero nel 2016, ma non dimentica quello che è stato, né tantomeno il calcetto che ha salvato come lui anche molti altri. Oggi quell’esperienza, in occasione del decennale dalla fondazione della squadra, è diventato un cortometraggio presentato nel marzo scorso dalla Lega dilettanti per promuovere il proprio impegno sociale con il progetto “Sopra la barrieraâ€. “Non posso che ringraziare ancora oggi persone come queste che non abbandonano i detenuti – conclude Germano – se in carcere non fai nulla, magari vieni anche trattato male, ti incattivisci; se, al contrario, incontri persone che ti offrono luci di speranza, allora sì che puoi cambiare. Ma ci vuole anche una certa dose di buona volontàâ€. E quella a Germano non è mai mancata.
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