Morto il rapitore che ispirò il paradosso della "sindrome di Stoccolma"
Amedeo Lomonaco - Città del Vaticano
Nel 1973 una rapina in un istituto bancario di Stoccolma innesca sviluppi psicologici paradossali. Durante un sequestro, durato 6 giorni, gli ostaggi iniziarono a simpatizzare con i rapitori, difendendo le loro azioni e diventando sempre più ostili nei confronti della polizia che era stata dispiegata all'esterno dell’edificio. Quello che è stato definito “il dramma di Norrmalmstorg†si concluse poi con il rilascio degli ostaggi. Successivamente, durante una trasmissione televisiva lo psicologo Nils Bejerot, commentando quell’episodio, coniò il termine di “sindrome di Stoccolma†per riferirsi alla lealtà e alla complicità di una vittima nei confronti del suo carnefice. Tale sindrome, descritta in contesti di rapimento, stupro o abuso su minori, può essere considerata - secondo alcuni psicologi - anche un meccanismo di difesa tramite il quale la vittima evita impulsi angosciosi o dolorosi accentuando e manifestando la tendenza opposta e conciliatoria.
La storia di Clark Olofsson
Uno degli autori di quella rapina compiuta a Stoccolma nel 1973, Clark Olofsson, è morto in questi giorni all'età di 78 anni. Convinse una donna tra gli ostaggi, Kristin Enmark, a parlare al telefono con il primo ministro svedese a nome dei rapitori. Lei lo supplicò di permetterle di lasciare la banca in un'auto con i rapitori: "Mi fido completamente di Clark. Non ci hanno fatto nulla. Sono stati molto gentili. Che ci crediate o no - aggiunse la donna - abbiamo passato davvero dei bei momenti quiâ€. Condannato più volte per vari reati, dalle rapine al traffico di droga, Clark Olofsson aveva trascorso gran parte della sua vita in istituti penitenziari in Svezia, Germania e Belgio. Era stato rilasciato definitivamente nel 2018. La sua storia ha ispirato, libri, film e una serie televisiva.
Perplessità sulla sindrome di Stoccolma
Il professor Luciano Eusebi, ordinario di Diritto penale nella Università Cattolica di Milano, spiega di avere “perplessità sull’enfasi dedicata alla cosiddetta sindrome di Stoccolma, che del resto non trova una classificazione nella dottrina psicologicaâ€. Certamente, aggiunge il docente, si possono instaurare “dinamiche di assoggettamento in chi subisce atti di suggestione psicologica oppure in chi subisce forme di coazione o violenza diretta. Probabilmente, in quest’ultimo caso, queste reazioni sono una strategia di difesa, conscia o inconscia, rispetto a possibili conseguenze più gravi, rendendosi con ciò la vittima, in qualche modo, compartecipe dei desideri e dei fini dell’aggressoreâ€. Una delle questioni centrali è legata alla relazione tra aguzzini e vittime: “a me pare che, richiamando la cosiddetta sindrome di Stoccolma - osserva il professor Eusebi - si voglia per lo più stigmatizzare qualsiasi forma di reciproco riconoscimento di umanità, pur nel contesto di fatti illecitiâ€.
L’umanità di ogni persona
Sia la figura della vittima sia quella del carnefice vengono spesso deformate dal mondo dell’informazione e da quello delle reti sociali. “Certa mentalità social, sovente - spiega il professor Luciano Eusebi - stimolata dai media e dalla demagogia politica, vuole il bianco e il nero. Vuole la vittima e il carnefice. Non accetta che vi sia un riconoscimento di umanità anche in chi sta sbagliando. E tanto più se questo avviene - addirittura - da parte di una vittima: che, in quel caso, finisce per essere stritolata dai media, derisa o emarginata come persona ‘patologica’ e da curare. In realtà, non è raro, né troppo sorprendente, che proprio nell’ambito di tipologie criminose che si estendono lungo una durata temporale, come il sequestro di persona, sia proprio la persona più vicina, suo malgrado, a chi sbaglia colui che può cogliere sfumature della sua personalità non identificabili con una malvagità gratuita o che addirittura può ridestarle; oppure che viene a trovarsi nella condizione di scorgere i presupposti umani di certe scelte sbagliate. Del resto, è proprio sul ridestare un reciproco riconoscimento in umanità che può fondarsi in alcuni casi la salvezza della vittimaâ€.
Alcune luci nel possibile dialogo tra vittima e carnefice
Il professor Eusebi, ricordando un fatto di cronaca, sottolinea come spazi di dialogo tra vittima e carnefice sono sempre possibili e a volte decisivi: “Sono stato amico di un famoso sequestrato italiano, che lo fu per molti mesi. Quando si trovò a lungo in una tenda, nel bosco, controllato a vista dal suo carceriere armato, cercò con molto coraggio di instaurare un dialogo, anche veemente, con lui; cercò un dialogo in modo da poter ridivenire, per lui, un interlocutore umano, e non il mero ‘oggetto’ di un sequestro: quando si discusse fra i sequestratori della sua possibile uccisione, fu proprio quel carceriere che lo difese. E non fu certo per debolezza, dunque, che restò aperto un rapporto del sequestrato con quel carceriere anche quando poi, quest’ultimo, si ritrovò in carcere.
La logica del perdono
Il professor Eusebi si sofferma infine sul concetto di perdono: “Ovviamente non costituisce un (vero) perdono quello di chi, per paura, si fa alleato del prevaricatore e copre l’inaccettabilità dei suoi atti. Ma che cosa è, veramente, il perdono? Si snoda in due passaggi e non consiste affatto in un atteggiamento di passività. Il primo è dato dalla indisponibilità a mettersi sullo stesso piano di chi fa il male, ripetendo verso di lui il male subito, cioè dalla indisponibilità alla vendetta. C’è dunque anche un orgoglio nel perdono. Il secondo, invece, sta nella disponibilità (la “guancia†ancora aperta) e, più ancora, nell’interesse personale affinché colui che ha sbagliato si liberi dal male; lo sappia vedere e sappia reimpostare la sua vita in termini di bene. In questo senso, l’umanità (e il coraggio) di alcune vittime che hanno saputo vedere, e talora promuovere, profili magari repressi di persistente umanità anche in chi agiva contro di loro può anche rappresentare una concretizzazione, nei fatti, della logica del perdono. Come lo è l’atteggiamento della vittima che non vuole il ‘marcire in carcere’ di chi pure abbia sbagliato, bensì, piuttosto, vuole che compia un percorso; un cammino che richiede impegno e talora non è esente da rischi di affrancamento dalle scelte criminoseâ€. Il perdono è, in questo senso, per la vittima la rinuncia al desiderio di vendetta e, per il carnefice, una possibilità di riscatto interiore.
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