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Da destra Colum McCann, Javier Cercas, Paolo Ruffini e Linda Stroppa al Meeting di Rimini Da destra Colum McCann, Javier Cercas, Paolo Ruffini e Linda Stroppa al Meeting di Rimini 

Ruffini: cerchiamo storie che parlano di speranza anche dove sembra non esserci

Al Meeting di Rimini il confronto tra gli scrittori Colum McCann, Javier Cercas e il prefetto del Dicastero per la Comunicazione sui confini di una comunicazione che sappia costruire la comunione

 Guglielmo Gallone - Rimini

«Io non so dove nasce una storia. Ma so che, per farla nascere, bisogna essere aperti. Aperti alla contraddizione. Viviamo in un mondo che è malato di certezze. Tutti hanno certezze ferree, tutti hanno sempre la sicurezza di sapere, di conoscere tutto. Dimentichiamo invece che una storia è la distanza tra due persone. Sempre. E l’essenziale, per una storia, è trovare una sorta di verità secondo cui io riconosco che tu esisti e tu riconosci che io esisto. Noi non dobbiamo per forza amarci, ma se non ci capiremo reciprocamente, l’uno con l’altro, allora saremo spacciati. Ecco perché le storie possono lavare i piedi del mondo»: così ha risposto lo scrittore irlandese naturalizzato statunitense, Colum McCann, quando gli è stato chiesto dove nasce una storia.

Ascolta l'intervista a Javier Cercas

Siamo al quarto giorno del Meeting di Rimini e oggi, 24 agosto, si è svolto uno degli eventi più intensi e toccanti in cui, insieme a McCann, lo scrittore spagnolo Javier Cercas e il prefetto del Dicastero per la Comunicazione Paolo Ruffini, moderati dalla giornalista Rai Linda Stroppa, hanno cercato di tracciare i confini di una comunicazione che costruisca comunione. Obiettivo tutt’altro che facile in un mondo sempre più segnato da conflitti e polarizzazioni, propaganda e semplificazioni bugiarde. In effetti, l’incontro è partito proprio da questa domanda: si può ancora comunicare con speranza? «Non solo si può, ma si deve — ha esordito Ruffini — ma dobbiamo cercarla, la speranza. Questo è il tema, che però non è facile perché siamo costantemente accecati dal male. Sui giornali, in televisione, nei social: il male luccica e le storie che raccontano il bene sembrano insabbiate. Il nostro compito, allora, è cercare, raccontare e condividere storie che facciano capire come, anche dove sembra non ci sia niente da fare e da sperare, in realtà non è così. Tutto ciò serve ai cattolici, certo, ma serve al mondo intero. Essere cattolici non significa vivere dentro un confine».

Ascolta l'intervista con Colum McCann

L’invito di Cercas è stato allora quello di «tornare alla cosa più elementare: raccontiamo la verità. Dobbiamo farlo per una ragione evangelica: la verità ci renderà liberi, il che significa che le bugie ci rendono schiavi. Oggi viviamo in un tempo in cui le bugie hanno un potere di diffusione enorme. In politica, nella vita pubblica, ovunque». Il problema, ha aggiunto lo scrittore spagnolo, «non è la tecnologia: quando l’uomo inventò la scrittura, tutti dicevano, da Platone in giù, che ci saremmo scordati ciò che pensavamo; lo stesso è avvenuto con l’invenzione della stampa; che dire poi dell’invenzione della televisione, quando si diceva che la cultura sarebbe scomparsa. Niente di tutto ciò è successo. Perché tutto dipende dall’uso che facciamo della tecnologia e, oggi in particolare, dell’intelligenza artificiale».

E se da un lato Colum McCann ammette che «abbiamo sempre vissuto epoche difficili, ma questa in particolare ci sembra più complessa perché il processo di riparazione di certi problemi è sempre più difficile», dall’altro suggerisce proprio per questo di «imparare a rallentare. Dobbiamo concentrarci sulla riparazione, sulla guarigione. E ciò può avvenire solo attraverso la conoscenza reciproca. Ascoltare l’altro non è facile, ma è bellissimo. Dobbiamo sì farlo con chi è diverso da noi, ma per questo non dobbiamo dimenticarci di farlo anche e soprattutto all’interno delle nostre comunità. In famiglia, a scuola, nelle università». Proprio qui emerge allora il ruolo della Chiesa che, ribadisce McCann, è «locale e globale. Papa Francesco ci ha lasciato proprio questo messaggio di comunicazione, di incontro, di ascolto: io ti riconosco. Io ti vedo».

Eppure, Cercas non esita ad aggiungere che «la Chiesa oggi deve cambiare linguaggio perché ha un problema linguistico. Il cristianesimo è rivoluzionario perché ha cambiato il modo di stare al mondo. Il paradosso è che oggi la Chiesa non riesce a comunicare la rivoluzione sociale di Cristo. La Chiesa ha un linguaggio vecchio. Non è attraente, non è vitale».

Il prefetto Paolo Ruffini non è del tutto d’accordo: «C’è un problema di linguaggio, certo, ma il linguaggio viene dopo le cose. La Chiesa o è comunione o non c’è. E questa comunione, questo corpo solo, non riguarda soltanto la Chiesa. Riguarda credere che siamo tutti figli e figlie di Dio. Se noi viviamo in questo modo, le nostre parole sono significanti. Ma se due persone dicono di volersi bene e non si vogliono bene, possono dirsi ti amo o ti voglio bene in qualsiasi modo, ma quelle parole non parlano. Questo, secondo me, è il punto su cui la Chiesa deve riscoprire la bellezza della comunione».

Altrimenti, riprende Cercas, il rischio è che «neppure i cattolici capiscano cosa vuole dire la Chiesa. Faccio un esempio concreto. Una delle parole fondamentali del pontificato di Bergoglio è rimasta incompresa: sinodalità. La Chiesa non ha saputo spiegare cosa sia. E, ancor più, le manca una cosa importantissima, che invece dobbiamo imparare da Papa Francesco: il senso dell’umorismo, l’ironia». Lo scrittore spagnolo ricorda in questo senso «l’atto di tenerezza che la Chiesa ha fatto con me, chiedendomi di partecipare al viaggio di Papa Francesco e di scriverci un libro Il folle di Dio alla fine del mondo (Milano, Guanda, 2025, pagine 464, euro 20), nonostante io sia un non credente. Francesco diceva a tutti di rischiare. E questo per la Chiesa è stato un rischio, mentre per me è stato un grande lavoro: ho dovuto pulire i miei pregiudizi. Moltissime persone, in tutto il mondo ma in particolare in Paesi di tradizione cattolica come Italia, Spagna o Irlanda, hanno enormi pregiudizi verso la Chiesa e verso il Vaticano. Scrivere un libro di questo tipo mi ha richiesto un lavoro enorme: vedere, senza giudizi automatici, cosa succede veramente, chi sono queste persone, cosa fa la Chiesa oggi. Questo facciamo noi scrittori: de-automatizziamo la realtà. Come se la vedessimo per la prima volta. E, così, tutto diventa sorprendente».

Ma, affinché ciò avvenga, ha concluso Colum McCann, «noi scrittori dobbiamo avere umiltà. Non bisogna privilegiare il ruolo dei romanzieri o dei poeti. I giornalisti hanno un ruolo, una possibilità e una responsabilità enorme, però bisogna stare attenti, i fatti sono mercenari, si vendono facilmente. Ci sono però cose che non sono basate sui fatti: l’amore, l’orgoglio, il sacrificio, la violenza. Noi dobbiamo analizzare queste cose. Per farlo, un giornalista, uno scrittore o un romanziere non deve restare chiuso in sé stesso o vivere separato dagli altri. Deve uscire per strada, incontrare persone, raccontare storie che funzionano persino quando non le vuole raccontare. Dobbiamo sforzarci di raccontare storie, anche semplici, ma capaci di svelare la semplicità umana. Dipende solo da noi».

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24 agosto 2025, 20:50