Giubileo, i giovani accendono Tor Vergata: "Qui parliamo tutti la stessa lingua"
Edoardo Giribaldi – Tor Vergata, Roma
Il Papa non è ancora arrivato. L’attesa prende vita. Corpo, respiro, pelle bruciata – nonostante le raccomandazioni di portare la crema solare – dai raggi che di tanto in tanto si fanno largo tra le nuvole. Occhi che cercano un punto d’ombra. Perché forse è vero quello che scriveva lo scrittore Jorge Luis Borges in Finzioni: “Esiste un’ora del pomeriggio in cui la pianura sta per dire qualcosa”. Quel “qualcosa” sono le parole del Pontefice, di Leone XIV. La pianura è quella di Tor Vergata. Il cielo è largo, il caldo sfianca, ma tiene svegli anche i non insonni. Il prato è una distesa di colori: tende leggere, zaini sventrati da cui spuntano bagliori di carte stagnole che avvolgono panini mezzi mangiati. Bottiglie d’acqua ormai tiepida, caricatori portatili. Le tanto raccomandate creme solari.
“Per il plot”
L’animazione sul palco principale prende il via a partire dalle 14. La musica si alterna alle testimonianze: storie di vita, di fede, di dubbi, di crescita o rinascita. I primi gruppi a salire sul palco sono l'Orchestra Pem Bresciana, la Blind Inclusive Orchestra – il primo complesso sinfonico per musicisti ciechi e ipovedenti – e l'Alleluya Malawi Band, che promuove la cultura tradizionale attraverso canti e danze delle tribù precoloniali. C’è chi preferisce la lettura. Tra le borse si scorge, ad esempio La luna e i falò, di Cesare Pavese. “Un Paese ci vuole”, scriveva lo scrittore piemontese, ed effettivamente ogni settore assomiglia proprio ad una piccola comunità, per i riti collettivi e unici di ciascun gruppo.
Da un angolo arrivano le note di una chitarra mal accordata: un gruppo di pellegrini – provenienti proprio dai luoghi di Pavese, da Torino nello specifico – canta La canzone del sole, poi passa a Maledetta primavera, ma con l’accompagnamento non live: è Spotify. La voce di Loretta Goggi rimbalza, un po’ nostalgica. “Siamo venute qui, lo abbiamo fatto per il plot”, dice Livia. Il naso leggermente scottato, gestisce cassa bluetooth e selezione musicale con la stessa concentrazione di un Dj in chiusura di serata. “Per il plot”, si intende, per la trama. vivere qualcosa fuori dalla comfort zone, qualcosa da ricordare, come in un film o in una serie tv. “Basta, che mi si scarica il telefono”, taglia corto Livia. La musica si interrompe. Sipario. Nuova scena.
“Stiamo vivendo”
Da un altro lato, si sentono voci americane. Cantano una versione acustica, unplugged, di Under the Bridge dei Red Hot Chili Peppers, ma sottovoce, come se volessero rispettare le esibizioni degli artisti sul palco principale. Tra di essi ci sono i The Sun, la rock band italiana nata nel 1997 che, intervistata dai media vaticani, ha definito la vita "piena" nel valore dell'amicizia, rispecchiata nella figura di Gesù.
Ma anche il coro Hakuna Group Music, nato durante la Giornata Mondiale della Gioventù a Rio de Janeiro nel 2013. Un ragazzo, Tristan, mostra una collanina al collo e un’altra in mano, ancora nella confezione plastificata. È il Tau francescano. “Questa è per mia madre. Da Assisi, straight from Assisi”, dice, come fosse un cimelio. I suoi amici spiegano biglietti dell’autobus e tracciano itinerari su Google Maps: Roma, Marsiglia, Barcellona. Un tour dell’Europa come la tradizione statunitense vuole. Ogni tappa, per Tristan, è un modo per dire: “È qui e ora. Stiamo vivendo”.
Fede tra urla e silenzio
Più in là, sotto un telo tirato tra due pali, Stromae canta in francese: Tous les mêmes. È la colonna sonora scelta da Amina, arrivata dalla banlieue parigina. Ha un cappellino Nike, scarpe Adidas. “Nel mio quartiere la fede è silenzio. Qui, urla e canta,” dice. Di famiglia musulmana, è partita con il gruppo interreligioso della sua università, dove ha trovato accoglienza anche tra i cattolici. “Non mi sono mai sentita in dovere di giustificarmi. Ed è forse la prima volta che mi accade. La cosa bella è che qui ci si ascolta anche senza parlare la stessa lingua.”
“Stasera dormo tranquillo”
Spostandosi ancora, l’atmosfera cambia. La musica cala, si fa in tempo a vedere il lancio del video che promuove la prossima Giornata Mondiale della Gioventù, in programma a Seoul, in Corea del Sud, nel 2027. Rimbomba il suono secco di un pallone che rimbalza sul terreno asciutto. Una partita di calcio improvvisata è in corso: zaini come porte, borracce come bandierine del calcio d’angolo. Mateo, colombiano di Medellín, gioca con la maglia di Lamine Yamal, fuoriclasse del Barcellona Fa un gol di rabona, poi alza le mani in segno di scusa. Applausi. “Quando tornerò a casa, dirò che ho dormito in mezzo a... boh, migliaia? Milioni. Sono cresciuto in una città difficile”, dice, riferendosi alle attività di narcotraffico che segnano Medellín. “Ma stasera dormo tranquillo”. Ride, si siede e si toglie le scarpe. Ha i calzini bucati. Un tifo da stadio accompagna anche le partite di calcio che animano diversi gruppi.
Merenda condivisa
Su un campo da pallavolo improvvisato, svetta Joy, 21 anni, da Lagos, Nigeria. È arrivata a Roma grazie a una raccolta fondi organizzata dalla sua parrocchia. Ha incontrato Beatrice, una delle ragazze torinesi che cantava Lucio Battisti. Ora condividono la merenda. “Io ho vissuto la povertà”, afferma Joy. “Ma stanotte, mangiando biscotti stranieri, posso parlare di pace. Questi sono strabuoni! Come si chiamano?”
Il Papa arriva presto
Qualcuno applaude, non per un altro gol di Mateo. Ma senza sapere perché. Sembra davvero che la pianura stia per dire qualcosa. “Non lo dice mai”, scriveva ancora Borges. “O forse lo dice un’infinità di volte e noi non la capiamo, o la capiamo ma è intraducibile come una musica. E forse non importa se si tratta di quella dei The Sun, o di quella dei Red Hot Chili Peppers. Perché, in fondo, se un giovane fatica a capire – per quanto spaventoso possa sembrare – non dovrebbe preoccuparsi: il Papa arriva, presto.
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