Don Giussani, la “bancarotta dell’umano” e la misericordia che riapre un orizzonte
Pietro Parolin
Sono lieto di introdurre con alcune righe questo testo inedito del Servo di Dio Luigi Giussani. Opportunamente è stato scelto come periodo di pubblicazione l’Anno giubilare dedicato alla speranza, iniziato il 24 dicembre con l’apertura della Porta Santa nella Basilica di San Pietro da parte di Papa Francesco. Il discorso di don Giussani, infatti, ha come filo nascosto la domanda che sarà ripresa da Benedetto XVI nella sua Enciclica sulla speranza Spe salvi: «Che cosa possiamo sperare?». Storicamente, davanti ai drammi del mondo, quale speranza ha diritto di cittadinanza? E noi stessi, individualmente, come creature segnate dai nostri limiti abbiamo diritto ad una speranza?
Mi permetto qui di rilevare gli spunti che maggiormente ho colto, personalmente, nelle parole del Servo di Dio.
Don Giussani – siamo nel 1985 quando pronuncia queste riflessioni – coglie, come un sismografo molto sensibile, i sommovimenti sociali e culturali della propria epoca. In breve, dopo la stagione tumultuosa del Sessantotto e degli anni Settanta, intuisce quel “riflusso nel privato”, più volte evidenziato dalla sociologia come il tratto unificante degli anni Ottanta. Con il suo linguaggio vigoroso, ricco d’impeto e d’immaginazione, mi pare argomenti tale consapevolezza con queste parole: «“Gli altri”, in questo dinamismo per la liberazione, pongono la loro speranza in un progetto sociale da loro condiviso, dove la condivisione è normalmente imposta dalla propaganda. Perciò c’è un’alienazione di partenza – perché aspettano la loro libertà da un progetto sociale – e c’è un’alienazione ultima, perché questa speranza nel progetto sociale è anch’essa dettata dalla società e dal potere, attraverso la propaganda. Hanno il vantaggio che sembrano ottenere immediatamente qualche cosa: l’afferrare la donna, l’afferrare i soldi, l’afferrare la carriera, l’afferrare la vendetta, ma è tutto di una brevità evidente: non essendovi una pazienza che continuamente approssima e inturgida il gusto e la percezione di quello che sta per essere afferrato, che è lì lì per essere afferrato, è tutto destinato al crash più grave, all’affondamento» (vedi qui, p. 74). Di fronte al crollo delle ideologie, sembra suggerirci don Giussani, la persona arriva al crash, ad affondare in quel movimento contrario al dono di sé che egli individua nel verbo «afferrare». Si afferra tutto – l’altro, i soldi, la carriera, le relazioni... – pensando che questo porti alla felicità. E invece il risultato è nient’altro che uno sprofondare nella delusione di trovarsi un nulla in mano.
A questo punto dell’argomentazione don Giussani ci offre un colpo d’ala nel pensiero e nella comprensione del fatto cristiano. Lontano da ogni riduzione moralistica in cui potremmo rinchiuderci, Giussani coglie che questo scontrarsi con il limite, con i limiti dell’essere umano, è una benedizione, è Dio che ci viene incontro, è un’occasione per avere a che fare con il tratto più genuino del Dio della Bibbia, la sua misericordia: «Alcuni anni fa, in un nostro ritiro, abbiamo detto che il limite […], proprio perché urta contro l’illimitatezza delle esigenze, è la prossimità dell’oltre, è il sentore dell’oltre che bussa alla porta» (p. 33).
E che nome dare a questo “oltre” che bussa? Papa Francesco ci ha ricordato che lo scontro tra il limite nostro e il nostro desiderio di infinito è luogo benedetto da Dio: «Per questo, alcune volte, voi mi avete sentito dire che il posto, il luogo privilegiato dell’incontro con Gesù Cristo è il mio peccato. È grazie a questo abbraccio di misericordia che viene voglia di rispondere e di cambiare, e che può scaturire una vita diversa. La morale cristiana non è lo sforzo titanico, volontaristico, di chi decide di essere coerente e ci riesce, una sorta di sfida solitaria di fronte al mondo. No. Questa non è la morale cristiana, è un’altra cosa. La morale cristiana è risposta, è la risposta commossa di fronte a una misericordia sorprendente, imprevedibile, addirittura “ingiusta” secondo i criteri umani, di Uno che mi conosce, conosce i miei tradimenti e mi vuole bene lo stesso, mi stima, mi abbraccia, mi chiama di nuovo, spera in me, attende da me» (Discorso al movimento di Comunione e liberazione, 7 marzo 2015).
Ed ecco che proprio qui, quando una visione minimale del fatto cristiano potrebbe ridurlo a compito morale, don Giussani ci aiuta a maturare. Oserei dire che per lui la speranza nasce proprio da questo doppio movimento: da questo “bussare” del limite rispetto all’infinito che l’uomo sente dentro di sé e dallo stupore che la misericordia di Dio suscita. La speranza ha origine da questo doppio abisso: il nostro limite, che talvolta ci appare infinito, ma ancora di più la tenerezza di Dio, che ha “colmato” questo abisso con la persona di Cristo.
La speranza è figlia della misericordia. Perché Dio ci perdona sempre: «Dio non si stanca di perdonare, siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono» ha affermato più volte Papa Francesco. La speranza, il vedere la possibilità di un “di più” sgorga non da noi, ma da Lui. Non è frutto del nostro ottimismo, che talvolta resta imbrigliato nello sconforto di fronte alle miserie della storia, bensì è un dono di quel Dio che riversa continuamente sul suo popolo la sua tenerezza e la sua misericordia. Ed è per questo che don Giussani tiene a precisare che il centro del nostro vivere non siamo noi, con le nostre povere forze, bensì quel Dio che ci ha fatti e per il quale siamo suoi.
In una pagina di singolare freschezza don Giussani, con piglio da vero educatore, invita i suoi giovani uditori a rifuggire ogni sconforto e tentazione di inazione: «Ragazzi, niente paura, niente paura! Niente paura di non riuscire, di non farcela. Come non ti sei fatto tu, così non ti compi da te: è un Altro che ti compie. Come si fa a vivere? È un Altro che ti ha fatto, è un Altro che ti desta all’essere. Istante per istante sei “di” un Altro! Perciò, niente paura di non riuscire, perché è un Altro che agisce in te» (p. 126).
Ecco, questa apertura all’azione di Dio, al Dio della storia, della grande storia e della mia storia personale, è quello che ci suscita speranza: perché il centro del mondo non siamo noi ma è un Altro. E così sorge in noi la speranza certa che i nostri giorni, i nostri affanni e il nostro vivere riposano in mani sicure.
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