Ep. 5 - Eliot, un classico moderno
Il passare del tempo, cadenzato dall’avvicendarsi di mode letterarie, non ha spento la forza delle intuizioni e delle innovazioni di Thomas Stearns Eliot. La voce del poeta, drammaturgo e saggista statunitense, naturalizzato britannico, continua a parlare, seducente, ai posteri. Una voce che fa di lui un classico moderno.
Il premio Nobel per la letteratura si propose come paladino della missione dell’uomo di lettere avverso a compiacimenti narcisistici, tanto da dichiarare che “un grande poeta, mentre scrive sé stesso, scrive il suo tempo”. Consapevole di questa responsabilità dalla forte incidenza etica, Eliot ha sondato le dinamiche caratterizzanti la prima metà del ventesimo secolo.
Eloquente, al riguardo, è Terra desolata, che disegna la parabola della decadenza europea dopo la Prima guerra mondiale, mentre la sua produzione teatrale, specie con il dramma Assassinio nella cattedrale, costituisce una tappa importante nello sviluppo della drammaturgia degli anni Trenta e Quaranta.
Con Virginia Woolf e James Joyce, Eliot condivise il ruolo di innovatore della letteratura modernista, che denunciava la crisi della cultura occidentale e la solitudine dell’artista. Sul piano stilistico veniva ad imporsi l’uso dell’immagine intesa non più come simbolo nel senso medievale o romantico, ma come “correlativo oggettivo”, ovvero come trasposizione di significati concettuali astratti in un’immagine priva di logiche connessioni con essi, ma parimenti capace di suggerirli emotivamente.
La sua sensibilità non rimase immune da un sofferto rapporto con la religione. È nel 1927 che si suole datare la conversione dello scrittore alla religione cristiana (i prodromi della svolta si riscontrano già in alcuni passi di Terra desolata). In quell’anno, infatti, cominciò a frequentare la Chiesa anglicana professando nel contempo idee conservatrici: tale posizione lo allontanò ideologicamente dall’amico Ezra Pound, rivoluzionario e con tendenze religiose pagano-orientaleggianti. Nel 2009 vennero alla luce alcuni inediti di Eliot, in particolare 74 lettere scritte, fra il 1930 e il 1964, al reverendo anglicano Geoffrey Curtis, in cui il poeta, con malcelato travaglio, si interroga sul ruolo della religione nella vita di ciascuno.
Il sentire religioso di Eliot si manifesta con vigore nel poema Mercoledì delle ceneri, nel quale rende anche omaggio alla letteratura italiana, come testimoniato dal verso “I do hope to turn again”, che richiama la ballata di Guido Cavalcanti “Perch’i’ non spero di tornar giammai”. Ma il suo tributo alla cultura del Bel Paese non si ferma qui. Catturato dalla poesia di Alighieri, Eliot scrisse il saggio Che cosa Dante significa per me, in cui dichiara con orgoglio di aver imparato a memoria i versi della Divina Commedia e di non aver mai provato imbarazzo nel declamarli a voce alta. Il poeta inglese riteneva Dante superiore a Shakespeare e a Milton perché in grado di dichiarare in una sola opera “tutto ciò che l’uomo è capace di sperimentare”. Ad affascinarlo era l’”assoluta precisione” di ogni verso, una precisione che fa di Dante “il più accorto studioso dell’’arte della poesia” nonché “il più attento e scrupoloso professionista del mestiere di poetare”.
Su Eliot un significativo fascino fu esercitato anche da Baudelaire. A coloro che giudicavano Goethe superiore all’autore de I fiori del male, faceva notare che la grandezza del poeta “maledetto” consiste nella “forza del soffrire”, sublime sintesi del sovrannaturale e del sovrumano. E nel sottrarlo dalle pastoie della formula “l’arte per l’arte”, Eliot rivendicava il genio di Baudelaire che, da un’esistenza lastricata di travaglio, aveva forgiato una poesia i cui versi fiammeggiano come l’alba, ma non conoscono tramonto.
Gabriele Nicolò