Ep. 2 - Mallarmé e la parola assoluta
Fu avviato da Baudelaire e corroborato da Verlaine e Rimbaud il processo di smaterializzazione della poesia, mirante, cioè, a sottrarla ai condizionamenti e ai limiti realistici, sia nei temi che nei mezzi espressivi. Fu poi Mallarmé a suggellare tale processo. Nel poeta francese si esprime in modo organico e definitivo il rifiuto del dato grezzamente naturalistico che, invece, veniva celebrato come principio fondamentale dalla narrativa di Zola e dal magistero della scuola parnassiana. Riguardo a questa impostazione, la critica tende a parlare di “fuga dalla realtà”, intendendo con essa non una banale evasione, ma una salda presa di coscienza del fatto che sotto la superficie delle cose vibra un universo di pulsioni e sentimenti cui va conferita dignità d’arte se della realtà si vuole dare una descrizione veramente esaustiva.
Mallarmé esortava a non rassegnarsi, di fronte all’analisi delle dinamiche del mondo, ad un facile appagamento per sondare, invece, “l’anima delle cose”. Per lui il poeta, “tra il volgo che ha occhi e non vede ed orecchi e non ode”, è l’eletto che inizia alla conoscenza autentica dell’interiorità dell’individuo. Il poeta sa bene che non è un compito agevole. Perché sia coronato da successo, egli deve essere in grado di gestire una sapiente orchestrazione di rapporti analogici e simbolici tra le persone e tra gli oggetti. Solo in questo modo sarà possibile dare forma e sostanza all’ineffabile e all’inesprimibile.
In questo contesto Mallarmé muove un’aspra critica ai parnassiani i quali, scrive, “prendono l’oggetto così com’è e ce lo mettono davanti, e per questo mancano di mistero”. Essi “privano la mente dell’incanto di credere che sta creando”. Definire un oggetto è annullare “i tre quarti del godimento della poesia, che nasce dalla soddisfazione di indovinare a poco a poco”. Quindi aggiunge: “Suggerire, evocare, è questo che ammalia la fantasia”.
Mallarmé quindi invita a dare un senso più puro alle “parole della tribù”. L’obiettivo, cioè, consiste nel depurare il linguaggio dalle incrostazioni e dai detriti di cui la giornaliera comunicazione lo ha caricato, così da arrivare ad una forma rarefatta ed ermetica, che esclude una intelligibilità immediata. Nel propugnare la sua teoria Mallarmé dimostra una puntigliosa intransigenza che ha qualcosa di intellettualistico e volontaristico. Mentre Rimbaud approdava, con i suoi versi all’oscurità, ma non la cercava a priori, Mallarmé dichiara, sul piano teorico, l’esigenza di applicare un ermetismo che si ammanti di un alone di sacralità. “Ogni cosa sacra, e che voglia restare sacra, si avvolge nel mistero – scrive – . Le religioni si trincerano in arcani misteri che si svelano solo a chi è predestinato. Anche l’arte ha i suoi arcani. Io mi sono chiesto spesso perché questa caratteristica indispensabile è stata negata ad una sola arte, alla più grande, cioè alla poesia. I primi venuti entrano tranquillamente in un capolavoro, e da quando ci sono poeti non sono state inventate, per allontanare gli importuni, una lingua immacolata, formule sacre e ieratiche il cui studio difficile, arido, acciechi il profano”.
Si tratta dunque di trovare “la parola assoluta”, di attingere “l’azzurro” – frequente simbolo in Mallarmé per indicare un’immacolata purezza – bruciando ogni scoria di materialità. In lui si sviluppa una sorta di ascetica ricerca dell’assoluto, all’interno della quale si consuma il dramma dell’inespresso. Non a caso il poeta sottolinea più volte il valore della “pagina bianca” da preferire a pagine segnate e inquinate da “ghirigori” e da “scarabocchi”.
Con Mallarmé si afferma anche “la mistica della parola” di cui egli celebra il potere incantatorio. Scrive: “Io dico, un fiore e, fuor dell’oblio, musicalmente si leva, idea stessa e soave, l’essenza di tutti i fasci di fiori”. Al contempo egli sovverte la tradizionale concezione del simbolo, che non va inteso, alla maniera dantesca e medievale, come un accordo lineare tra le cose, e quindi come un dato logico e ben definito. Il simbolo, nella concezione di Mallarmé, s’inserisce in una dimensione di estrema soggettività e di pronunciata fluidità che rende quanto mai difficile l’individuazione di nessi e di legami tra i diversi elementi di cui è intessuta la trama poetica.
Gabriele Nicolò