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2024.03.21 Lettere da Gerusalemme

Ep. 6 - Venerdì Santo 2025

Meditazione di don Filippo Morlacchi, sacerdote della Diocesi di Roma, fidei donum a Gerusalemme

Gerusalemme, 18 aprile 2025, Venerdì santo

Ieri, nel nostro pellegrinaggio spirituale ai luoghi della pasqua del Signore, siamo saliti nella “stanza al piano superiore” dove Gesù ha celebrato l’ultima cena. Anche oggi – venerdì santo – dobbiamo fare una salita. È una scalinata composta da una quindicina di alti gradini, che dal livello del pavimento della basilica del santo Sepolcro conducono al Calvario. Come ben sanno tutti coloro che sono venuti pellegrini a Gerusalemme, il calvario non è una “montagna”, anche se spesso si parla del “Monte Calvario” e neppure una vera e propria collina. Si tratta di uno sperone roccioso ora inglobato all’interno della basilica del Santo Sepolcro, a pochi passi dal suo ingresso. Oggi quel che si vede è una specie di terrazza quadrata di circa 8 metri per lato, sotto il cui marmo, sul lato est, si trova la roccia viva del Calvario. Ai tempi di Gesù il luogo era spoglio di arbusti: “Golgota” significa infatti “cranio”, cioè un’altura senza vegetazione, liscia come un cranio. Si trovava appena fuori una delle porte della città santa, e per questo il luogo era stato scelto per le esecuzioni capitali, affinché tutti, passando, potessero vedere il supplizio riservato ai trasgressori della legge di Roma. Nella solida roccia erano stati praticati alcuni fori, nei quali minacciosamente rimanevano conficcati in modo permanente alcuni pali, pronti per il supplizio. I condannati di turno venivano poi inchiodati al patibulum, cioè la trave orizzontale della croce, e innalzati su questi pali, fino alla morte, lenta e dolorosissima. Quel venerdì mattina, questa terribile condanna era stata decretata da Ponzio Pilato per Gesù e due malfattori.

Le crocifissioni non erano rare, ai tempi di Gesù. E di certo non avevano molto in comune con l’idea di un amore idealizzato e spirituale, che spesso associamo alla parola “croce”. Si trattava di una violenza brutale e omicida, a cui oggi – grazie a Dio – assistiamo solo nei film o, purtroppo, tramite i mezzi di comunicazione sociale. Ma a quel tempo, le pubbliche esecuzioni erano uno spettacolo a cui praticamente tutti, almeno qualche volta, avevano assistito.

Venerdì scorso ho avuto occasione di partecipare alla celebrazione della Pasqua dei samaritani, secondo la loro millenaria tradizione. Si tratta di una popolazione ben nota ai lettori del Vangelo, se non altro per la parabola del buon samaritano, al capitolo decimo del vangelo di Luca, o per l’incontro di Gesù con la donna samaritana al pozzo di Giacobbe, nel vangelo di Giovanni (Gv 4). Di quel popolo rimangono oggi solo poche centinaia di persone, che vivono ancora sul monte Garizim, in Samaria, a un’ora di macchina da Gerusalemme. Al tempo di Gesù erano considerati una setta deviante dell’ebraismo, e perciò disprezzati dagli ebrei osservanti. Tuttavia hanno conservato intatte alcune tradizioni ebraiche molto antiche, come tremila anni fa. Tra queste, la celebrazione della pasqua. I samaritani si radunano tutti insieme, vestiti di bianco, portando con sé pecore, agnelli e capre. Dopo la preghiera dei sacerdoti, gli uomini sgozzano pubblicamente gli animali, i quali in meno di un minuto muoiono, mentre il sangue cola a fiotti sulle pietre e sul terreno. Poi pecore e agnelli vengono preparati per la cottura: si taglia il vello, si gettano via le interiora, e si brucia tutto su un grande falò; poi, gli agnelli vengono salati e infilzati su un lungo bastone di legno, a mo’ di spiedo, ma in verticale. Sono così pronti per essere messi nei forni scavati nella terra, e diventare così cibo per tutta la comunità. Una specie di sanguinoso banchetto rituale, che però, nella sua cruda brutalità, mi ha costretto a ripensare in termini più realistici e concreti al significato del “sacrificio della croce”, dell’“agnello di Dio”.

Mi sono immaginato Gesù, che celebrando ogni anno una liturgia pasquale molto simile a questa, così violenta e primitiva, si interroga perplesso: davvero uccidere brutalmente questi poveri animali riesce a riconciliare l’umanità con Dio? O ci vuole qualcosa di diverso, un nuovo tipo di offerta, un sacrificio differente? Ecco: il sangue di questi animali – ignari della loro sorte fino ad un secondo prima di essere sgozzati – è solo un simbolo, un’ombra, una prefigurazione del vero sacrificio che può salvare il mondo, cioè: offrire se stessi, immolarsi, donare la vita, e farlo consapevolmente e liberamente, accettando su di sé la violenza del male senza lasciarsi contaminare dall’odio. Ecco: Gesù sul Golgota, vive nella sua carne ciò che aveva anticipato nell’ultima cena: sì, il vero agnello pasquale sono io, e quei poveri animali erano solo un simbolo. Il mondo troverà la pace quando l’uomo – quando ogni uomo – accetterà di morire piuttosto che uccidere l’altro; quando sacrificherà sé stesso e la sua volontà invece di quella dei fratelli; quando saprà accettare l’ingiustizia, e perfino la morte, sapendo che Dio è fedele e non lo abbandona mai.

In questo tempo di guerra, di odio, di incapacità generale di comprendere e condividere il dolore dei fratelli e delle sorelle, la memoria della passione ci ricorda una grande verità: la liberazione dal male e dal peccato, il rinnovamento del mondo vengono dall’offerta di sé che Gesù ha accettato sul Calvario. Egli non ha chiesto ai suoi angeli di essere salvato e di punire i suoi nemici, ma ha pregato per tutti, dicendo: “Padre perdona loro… nelle tue mani affido il mio spirito…” (Lc 23,34.45). Egli ha assunto su di sé la violenza aggressiva del male, ha accettato la morte di croce, sicuro che l’amore del Padre non l’avrebbe abbandonato neppure scendendo agli inferi. Questo è il sacrificio della nuova ed eterna alleanza, il sacrificio di amore che salva l’umanità, liberandola dalla paura della morte e dunque dal potere del diavolo. Un sacrificio prefigurato nel sangue delle antiche immolazioni, ma trasfigurato nella libertà di chi, seguendo Gesù, dice: a costo di morire, non smetterò di amare. Preghiamo allora con Gesù, vero agnello pasquale, pensando a tutte le vittime della guerra e della violenza, qui in Terrasanta, e in tutto il mondo. E con San Francesco diciamo: « Laudato si’, mi Signore, per quelli ke perdonano per lo Tuo amore …ka da Te, Altissimo, sirano incoronati». Gesù, agnello di Dio che togli i peccati del mondo, dona a noi la pace. Amen.

18 aprile 2025