Ep. 7 - Sabato Santo 2025
Meditazione di don Filippo Morlacchi, sacerdote della Diocesi di Roma, fidei donum a Gerusalemme
Gerusalemme, 19 aprile 2025, Sabato santo
Oggi il nostro pellegrinaggio spirituale ci porta in basso. Non una salita, come nei giorni scorsi, ma una discesa. E non una discesa di pochi scalini – come quelli che, nella Basilica del Santo Sepolcro, separano il Calvario dall’edicola della sepoltura – ma una discesa infinita, cosmica, fin nelle viscere della terra. La discesa negli inferi, nello 蝉丑别’辞濒, nell’Ade, il regno dei morti.
Il Figlio di Dio è abituato a scendere. Egli è sceso in mezzo a noi con la sua incarnazione. “Tu scendi dalle stelle”, cantiamo a Natale. Il Figlio del Padre, che “in excelsis” godeva della gloria di Dio, è sceso in terra per farsi nostro fratello. Tutta la vita di Gesù, poi, è stata un costante abbassarsi, un piegarsi al nostro livello, una continua spogliazione di sé; una “kenosi”, come dice l’antico inno citato da san Paolo nella Lettera ai Filippesi (Fil 2), cioè – letteralmente – uno “svuotamento”. Uno svuotamento di sé da parte del Verbo di Dio, per non lasciare solo l’uomo in nessuna delle sue “bassezze” – eccetto ovviamente il peccato, che il Santo di Dio non può commettere. Gesù si chinava sulle ferite dell’uomo quando compiva miracoli e quando risanava la povera gente: prendeva per mano ammalati di ogni genere e con un gesto di misericordia li risollevava, restituendoli alla vita. Una metafora bellissima di questo abbassamento gratuito e pieno di misericordiosa tenerezza è narrata dall’evangelista Giovanni al capitolo ottavo. Gesù, quando gli viene presentata una donna, colta in flagrante adulterio, invece di condannarla come avrebbero voluto scribi e farisei, si china e si mette a scrivere per terra con il dito (cfr Gv 8,3-10). E così anche quella peccatrice trova salvezza. Mai Gesù ha guardato qualcuno dall’alto in basso, perché lui stesso – il Figlio dell’altissimo – ha scelto liberamente di abbassarsi: “excelsus venit humilis / salvare quod perierat”, dice un antico inno: “l’altissimo viene nell’umiltà, per salvare ciò che era perduto”. Oggi, sabato santo, questa discesa raggiunge profondità vertiginose. Oggi il Signore scende ancora, non solo nel sepolcro, ma negli abissi della morte, in quelle profondità oscure dove Dio non può scendere. Perché lo sheol è il regno delle ombre, della morte e delle tenebre, e Dio invece è Luce e Vita.
La discesa del Figlio di Dio negl’inferi è il paradosso più grande della fede cristiana. Il Figlio di Dio ha assunto la nostra carne mortale proprio per condividere con noi ciò che Dio non poteva sperimentare. Non il peccato, cioè – che è la negazione di Dio, e Gesù non poteva peccare – ma la morte, che è l’assenza di Dio. Sulla croce Gesù ha vissuto in anticipo l’esperienza della sheol, dell’essere “senza Dio”: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15, 34). Gli inferi sono il luogo dove l’uomo – mortale – non può scendere, e dove Dio – immortale – non può entrare; dunque, il luogo dove Dio non c’è. Perché Dio non è nella morte. Dio non è nel male. Dio non è nel dolore. Per questo la domanda che tormenta chi soffre è sempre: “Dio, dove sei? Perché non sei qui con me? Perché mi hai abbandonato?”.
Gesù ha voluto condividere con noi non solo questa domanda, ma l’esperienza stessa dello sheol. E dal quel giorno, il regno degli inferi non è stato più lo stesso. Dal Sabato Santo in poi neppure lo sheol è privo della presenza di Dio. Lo aveva profetizzato il salmista: «Dove andare lontano dal tuo spirito? Dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo, là tu sei; se scendo negli inferi, eccoti», dice il salmo 139 (Sal 139,7-8). Ma ciò che nel salmo era solo un’invocazione e una preghiera, con il Sabato Santo diventa una certezza di fede. Da quando Gesù è disceso agli inferi, non c’è più luogo in tutta la creazione che sia privo della presenza di Dio.
Dio però a volte tace. Anche oggi. E il suo silenzio ci lascia dubbiosi e sgomenti. Vorremmo non solo la sua presenza con noi, ma il suo intervento per noi. Vorremmo sempre un suo intervento immediato, indubitabile, clamoroso, secondo i nostri desideri. Quante volte, in questi mesi di guerra, in questa Terra, da una parte e dall’altra del confine, qualcuno ha invocato, nella sua lingua e secondo la sua fede: “perché non intervieni, Signore? Perché non fai cessare questa guerra che ci distrugge? Perché non liberi i prigionieri, come hai promesso ai nostri padri?”. «Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto? …» (Sal 13,2)… E il silenzio di Dio ci lascia atterriti e muti.
Il Sabato Santo è il giorno del “grande silenzio” di Dio e della grande fede dell’uomo. Il giorno in cui Dio non interviene ancora, ma non ci lascia soli. È sempre con noi, anche se non subito interviene per noi – o almeno, non lo fa quando e come vorremmo. Il Sabato Santo è il giorno della pazienza e della condivisione. È il tempo dell’attesa fiduciosa dei tempi di Dio, la stagione della nuda fede. Nel grembo della terra, «il seme caduto germoglia e cresce, come, lui stesso non lo sa…» (cfr Mc 4,27). Oggi, Sabato Santo, è il giorno in cui il Signore Gesù scende negli inferi per non lasciarci soli nella morte. Ma questo silenzio misterioso e incomprensibile diventerà il grembo della vita nuova. «Abbiate coraggio, io ho vinto il mondo… Io sono la risurrezione e la vita...: chi crede in me, anche se muore, vivrà…» (Gv 16,33; 11,24ss).