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2024.03.21 Lettere da Gerusalemme

Ep. 5 - Giovedì Santo 2025

Meditazione di don Filippo Morlacchi, sacerdote della Diocesi di Roma, fidei donum a Gerusalemme

Gerusalemme, 17 aprile 2025, Giovedì santo

Vivere la settimana santa a Gerusalemme è una grazia, per chi è cristiano come me. Ma lo è certamente anche per i nostri fratelli ebrei. Coloro che vivono nella diaspora, sparsi nel mondo, da molti secoli al termine della cena pasquale cantano: LeShana Haba’ah BiYirushalayim, “l’anno prossimo a Gerusalemme”. È un inno di speranza, che esprime il desiderio di tornare a vivere un giorno, in pace, nella città santa. Gli ebrei che oggi vivono in Israele aggiungono a questo canto la parola habnuya, “l’anno prossimo a Gerusalemme ricostruita”, perché anche se già vivono a Gerusalemme, la città santa è sempre simbolo di una pace non ancora pienamente posseduta – e purtroppo è davvero così. Anche il libro dell’Apocalisse ci parla di una “nuova Gerusalemme, che viene dal cielo” (cfr Ap 3,13; 21,2), cioè che è dono di Dio, più che costruzione umana. La riconciliazione dell’umanità con Dio infatti, pur implicando la necessaria collaborazione della libertà umana, è soprattutto una grazia, un dono che viene dall’alto. Per noi cristiani, questa “Gerusalemme che viene dal cielo” è il paradiso, il regno dei cieli, la nuova creazione che abiteremo alla fine del tempo.

Ma poi c’è anche una Gerusalemme terrena, una Gerusalemme concreta, che esiste nella storia, in questa terra benedetta e sofferente dove Gesù ha celebrato la sua pasqua ultima e definitiva. Celebrare la settimana santa a Gerusalemme per noi cristiani è una grande grazia, uno straordinario privilegio, perché possiamo vivere e abitare quei luoghi santi dove si è compiuta la passione del Signore. Vi propongo perciò di fare con me – e con tutta la comunità cristiana che vive in Terrasanta – un breve pellegrinaggio spirituale in alcuni di questi luoghi benedetti.

Entriamo dunque oggi nel cenacolo, quella “stanza al piano superiore” sulla collina più alta di Gerusalemme, nella zona sud della città, dove Gesù ha ardentemente desiderato celebrare la pasqua con i suoi amici. Ce lo ha ricordato l’evangelista Luca, all’inizio del racconto della passione che abbiamo ascoltato Domenica delle Palme: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione…», dice il Signore (Lc 22,15).

Saliamo lentamente, dunque, quelle scale che ci portano nel luogo dove Gesù ha spezzato il pane, in quella sera fredda, in quella notte di tenebra. Gerusalemme è a quasi 800 metri di altitudine, e soprattutto dopo il tramonto può fare ancora molto freddo, anche nel mese di aprile, come nei giorni scorsi. Gesù desidera ardentemente celebrare la pasqua non da solo, ma con i suoi amici, perché la pasqua è una festa che si celebra in famiglia, non nel tempio. Necessariamente si fa così oggi; ma si faceva allo stesso modo anche ai tempi di Gesù, quando il tempio non era ancora stato distrutto. La Pasqua si celebrava nelle case, in famiglia, dopo la macellazione degli agnelli, che invece avveniva nel tempio. Ma la Pasqua si doveva celebrare nelle case di Gerusalemme: è infatti una delle feste in cui tutti gli ebrei sono tenuti a recarsi in pellegrinaggio nella città santa. E così fa anche Gesù, che dalla Galilea, sale a Gerusalemme insieme ai suoi discepoli. E secondo la prescrizione, vi celebra la Pasqua organizzando una chaburah, che è il nome tecnico, in ebraico, per indicare il gruppo di pellegrini che per la notte di pasqua diventano “casa e famiglia”, il luogo dove fare memoria della salvezza di Dio, la compagnia con cui si celebra la fedeltà dell’alleanza di Dio. Sì, la pasqua si celebra in famiglia, in casa, il quel luogo sicuro, protetto dall’amore fedele di Dio e dalla sua luce spirituale, mentre le tenebre restano fuori, simbolo del caos e del male oscuro che minaccia l’esistenza umana.

Oggi siamo noi – la Chiesa – la chaburah di Gesù, la sua famiglia, i suoi amici, la sua compagnia, quelli con cui egli desidera ardentemente celebrare la Pasqua. Quei pellegrini di speranza che, nella notte del mondo, restano insieme con lui. Una legge rabbinica proibiva infatti di uscire da Gerusalemme nella notte di pasqua: l’intera città santa diventava simbolo di quel  “luogo sicuro” dove trovare la salvezza e la protezione di Dio, e dove celebrare, insieme, il suo amore fedele. Le tenebre restano fuori: fuori dal cenacolo, fuori Gerusalemme, fuori dal cuore di coloro che vivono la comunione nell’amore.

Gesù infatti nell’ultima cena spiega ai suoi amici – e anche a noi – qual è la forza che sostiene il mondo e che lo protegge dalla minaccia del caos e del male. È l’amore, l’amore fino alla fine, l’amore che si sacrifica. «Questo è il mio corpo, è per voi, prendete, mangiate… questo è il mio sangue, la mia vita, offerta… nessuno me la toglie, sono io che la dono…». Anche noi, oggi, sentiamo la forza del male che ci assedia, ci minaccia, ci aggredisce. È la guerra, la violenza contro le donne e i più deboli, l’esercizio del potere per il proprio interesse invece che per il bene comune. È il senso diffuso che “le cose non vanno come dovrebbero”. La percezione che qualcuno – cattivo – ha seminato della zizzania nel terreno della storia, e forse perfino nel campo della Chiesa. Oggi a Gerusalemme ci stringiamo nel cenacolo, intorno al Signore, per essere la sua chaburah, la sua casa, la sua famiglia. Lo ascoltiamo mentre ci dice: “vi ho dato un esempio, fate lo stesso tra voi, fate questo in memoria di me…” (cfr Gv 13,15; Lc 22,19). E nella memoria di questo amore libero, immolato e senza limiti troviamo un argine solido alla potenza del male. La notte resta fuori, se il Signore è con noi. Così celebriamo questa pasqua come “pellegrini di speranza”, con “i fianchi cinti e il bastone in mano” pronti ad accogliere chiunque voglia farsi compagno di cammino. E poi, come Gesù, dopo la santa cena, “usciamo”. Andiamo incontro alla notte, portando dentro di noi la forza dell’amore invincibile che viene dall’eucaristia. Questa è la “Chiesa in uscita” di cui il mondo ha bisogno…

17 aprile 2025