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La monaca di Monza La monaca di Monza 

Ep. 10 - La monaca di Monza

Manzoni non accetta nessuna delle finzioni narrative impiegate, come nel “Don Chisciotte” o nella “Manon Lescaut”, in cui un incontro del tutto occasionale induce il personaggio a narrare i casi della propria vita. La monaca di Monza non racconta in prima persona la propria storia. E lo scrittore, prima di rendere edotto il lettore sul travagliato passato del personaggio, ne offre una descrizione fisica tra le più penetranti, nella sua essenzialità, della storia della letteratura italiana. Una descrizione (come è dato di ritrovare, per esempio, nei romanzi di Charlotte Bronte) imperniata sul principio del contrappunto, nel segno di un gioco sapiente di sottrazione e addizione. La monaca era “d’una bellezza sbattuta, sfiorita alquanto, e direi quasi un po’ conturbata, ma singolare”. In conformità all’equilibrio manzoniano, i suoi occhi sono definiti “neri, neri” e le sue mani “bianchissime”. Riguardo all’età, “poteva mostrare venticinque anni” e sotto la benda di lino, la parte che di lei si vedeva non era meno bianca della benda e sembrava “un candido avorio posato in un nitido foglio di carta”.

Al contempo, a differenza di Flaubert, secondo cui l’autore deve essere sempre assente dal quadro generale, Manzoni, pur adottando la terza persona, decide di intervenire in prima persona quando deve esprimere ”l’orrore” legato a certi drammi, sebbene tale orrore sia poi mitigato dall’uso dell’ironia, cifra stilistica per eccellenza dello scrittore. La monacazione forzata non poteva non suscitare sdegno in Manzoni. Una pratica, questa, in voga nell’ambiente nobiliare seicentesco. Trattando di quel secolo, durante il quale schiere di moralisti avevano denunciato tale piaga, lo scrittore si unisce al coro di biasimo, tanto più che casi di monacazioni forzate si segnalavano, in alcune parti d’Italia, anche nell’Ottocento. La figura storica cui si ispira Manzoni è Marianna de Leyva che fu costretta ad emettere i voti perpetui. Cadrà in disgrazia per aver ceduto alle seduzioni del proprietario, certo Osio, di una casa attigua al monastero. Marianna, nel romanzo, diventa Gertrude, e Osio diventa Egidio. In una sola frase, lapidaria e tremenda, lo scrittore riesce a sintetizzare e a suggellare il destino di Gertrude: “La sventurata rispose”. In sole tre parole vengono evocate le tenebre del passato e le tenebre del futuro: il presente si configura come immobile, rappreso nella folgorante inesorabilità di una sentenza.  Attilio Momigliano ha paragonato la frase “La sventurata rispose” al verso dantesco nell’episodio di Francesca da Rimini: “Quel giorno in più non vi leggemmo avante”. Un accostamento dettato dalla perentorietà sia del dettato narrativo che del testo poetico. Due sentenze che sono come una pietra calata, senza far rumore, sull’effervescenza di vite destinate a sbiadire.

La critica è concorde nel definire la monaca di Monza la figura più moderna dei “Promessi Sposi”. “Una monaca ritta”, viene subito presentata così, come se lo scrittore volesse far intendere che - nonostante da giovanissima fosse stata vittima di una perfidia tramata dalla famiglia e da soggetti conniventi - l’ingiustizia subita non l’aveva piegata. Al contrario, l’aveva, sebbene a carissimo prezzo, maturata e rafforzata.

Se da un lato, è aperta la condanna di Manzoni nei riguardi della monacazione forzata, dall’altro è più contenuto il suo giudizio sulla monaca. Un giudizio sospeso su un crinale etico. Ai suoi occhi l’aver trasgredito (anzitutto con il delitto) le regole di una vita consacrata non poteva che suscitare riprovazione. Ma al contempo era innegabile che il trauma da lei subito da adolescente era destinato a sortire effetti perniciosi. Come nel caso di don Rodrigo, Manzoni non emette un giudizio personale, quindi terreno, ma rispetta le priorità, e lascia così al giudizio divino il diritto e il dovere di sentenziare. Una sentenza, a dire il vero, amara, screziata solo da un angusto pertugio di luce.

Gabriele Nicolò

05 giugno 2025