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L'Azzeccagarbugli L'Azzeccagarbugli 

Ep. 8 - L'Azzeccagarbugli

Non è soltanto un leguleio, pedante e cavilloso, Azzeccagarbugli, ma anche e soprattutto l’espressione del parassita seicentesco. Novello Ponzio Pilato, respinge i quattro capponi di Renzo, del cui problema – il matrimonio contrastato – se ne lava le mani. “Le mani se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero” osserva Manzoni. La sua viltà non si esaurisce nella classica paura che si prova al cospetto dei potenti: in tal senso, la sua figura è affine a quella di don Abbondio. In lui il pauroso finisce per tramutarsi in un diplomatico servitore dei signori.

Azzeccagarbugli è, suo malgrado, uno dei protagonisti del banchetto di don Rodrigo. A svelare le magagne del suo sentire è, con la sua sbarazzina disinvoltura, il conte Attilio, che lo definisce “un pacifico parassita” e ne critica il timore di esprimere apertamente le opinioni. Lo invita dunque a non limitarsi a fargli dei “sogghigni” per dimostrare che condivide il suo pensiero. A questa sollecitazione, che lo spiazza, perché va a scuotere la sua collaudata strategia votata all’astensionismo da giudizi chiari e perentori, Azzeccagarbugli appare “confusetto”. Chiamato in causa riguardo alle dispute che si accavallano durante il movimentato banchetto, Azzeccagarbugli prova a tergiversare pur di non dire la sua: il rischio è di compromettere il suo rapporto con i potenti. Solo quando fra Cristoforo, in merito ad una disputa cavalleresca, avrà espresso il proprio parere, solo allora Azzeccagarbugli parlerà. Sente che in quel banchetto fra Cristoforo non è gradito e di conseguenza sa che può osare contraddirlo. Ma non troppo, perché “anche un cappuccino è bene tenerselo buono”.

Lo stesso don Rodrigo, meno acuto del conte Attilio, intuisce la viltà di Azzeccagarbugli e lo canzona per la sua tendenza a “dare ragione a tutti”. E, sollecitandolo anche lui a parlare, afferma: “Vediamo un poco come farete per dar ragione in questo al padre Cristoforo”. La risposta, a questo punto, non si fa attendere, e viene formulata in termini di aulica eloquenza. “In verità, rispose il dottore tenendo brandita in aria la forchetta, e rivolgendosi al padre, in verità io non so intendere come il padre Cristoforo, il quale è insieme il perfetto religioso e l’uomo di mondo, non abbia pensato che la sua sentenza, buona, ottima e di giusto peso sul pulpito, non val niente, sia detto col dovuto rispetto, in una disputa cavalleresca. Ma il padre sa, meglio di me, che ogni cosa è buona a suo luogo, e io credo che, questa volta, abbia voluto cavarsi, con una celia, dall’impiccio di proferire una sentenza”.

Nel far operare da Azzeccagarbugli una distinzione protocollare, e ipocrita, tra il dire e il fare, a detrimento di fra Cristoforo, Manzoni colloca la sua figura nella temperie del Seicento, secolo in cui era avvertita in modo acuto la dicotomia tra forma e sostanza, tanto da intaccare il pensiero e la logica del tempo: un conto è il dover essere e un altro conto è l’essere, una cosa è la verità detta dal pulpito, un’altra cosa è la verità spicciola per l’uso quotidiano. Lo scenario è avvolto dalla puntuale ironia manzoniana, quell’ironia – scrive Luigi Russo – che “investe l’umanità eterna nel suo valore trascendentale, ma investe al tempo stesso l’umanità storica, di una particolare società, di una particolare civiltà”.

All’inizio del romanzo Manzoni aveva presentato Azzeccagarbugli affibbiandogli questa frase rivelatrice del suo carattere: “A saper bene maneggiare le gride, nessuno è reo, nessuno è innocente”. Una frase che condensa la tensione del leguleio a conservare sempre una prudente equidistanza da tutto e da tutti. Alla fine del banchetto, in occasione del brindisi, quell’equidistanza rompe gli indugi e scopertamente s’inchina al potere e ai potenti. Costretto anche in questo caso a parlare, su invito di don Rodrigo, Azzeccagarbugli, con il naso “più vermiglio” del vino, di questo tesserà lodi sperticate, “battendo con enfasi ogni sillaba” e ricorrendo a citazioni latine. L’elogio del vino fa da prologo ad un elogio ancora più esteso, quello dei pranzi dell’”illustrissimo signor don Rodrigo”, che “vincono le cene d’Eliogabalo”. Un brindisi che suggella la vuota pomposità di Azzeccagarbugli: vuota come la caraffa che si è avidamente scolato.

Gabriele Nicolò

21 maggio 2025