Ep. 6 - Don Rodrigo
E’ un figlio del Seicento, don Rodrigo. In lui, infatti, si riflette un secolo legato alla doppia tirannide degli stranieri e di un clero che ha smarrito la retta via. Egli è un uomo che riproduce, con supina fedeltà, il colore della sua epoca, che è senza originalità e senza grandezza. Manzoni fornisce dei suoi personaggi un ritratto diretto: con don Rodrigo, invece, cambia metodo. La prima volta che entra in scena, non viene descritto lui, ma il palazzotto, da cui egli esercita la sua signoria. Si ha dunque l’impressione che l’uomo non abbia un suo valore intrinseco e indipendente: sta in piedi solo grazie all’apparato di armi e di armati, nonché di mura superbe, che lo proteggono. “Il palazzotto di don Rodrigo – scrive Manzoni – sorgeva isolato, ed era come la piccola capitale del suo piccol regno”. Don Rodrigo – osserva Luigi Russo – è il deus ex machina del romanzo -, eppure l’artista non ha sentito il bisogno di farcene il ritratto”.
Quando fra Cristoforo ricorda, con fiero cipiglio, che “verrà un giorno”, don Rodrigo prova subito un “lontano e misterioso spavento”. Non è certo un espediente confessionale quello cui fa ricorso lo scrittore per mettere a disagio chi è macchiato dal peccato. Tale “spavento” non evoca l’idea di un’oppressione punitrice: al contrario, si configura come una sorta di tentativo, timido ma fermo, di riscatto. Manzoni infatti rifuggiva dalla concezione di un cattolicesimo da controriforma oscuro. I malvagi devono sentire nel loro cielo cupo la presenza, per quanto remota, della divinità: questo è il loro castigo, ma è anche la loro sorgente di misericordia. Non c’è momento, per Manzoni, in cui l’iniquo non si senta seguito, o meglio, incalzato dall’ombra del suo male. La punizione per chi è nel torto non è mai fine a sé stessa, perché si manifesta anche come una luce di Dio, prossima a squarciare le tenebre. Tale immanenza divina, anche nella coscienza oscura del malvagio, rappresenta una delle intuizioni poetico-religiose di Manzoni. Don Rodrigo comincia a sentire questo disagio legato all’immanenza divina fin dal primo momento dell’ingresso di fra Cristoforo, nella sala del convito. “Don Rodrigo – si legge in un passo del romanzo – senza indovinar precisamente il soggetto di quella visita, per non so qual presentimento confuso, ne avrebbe fatto di meno”. E, al momento di sparecchiare, ancora risente il penetrante assillo della presenza del frate: “Don Rodrigo intanto dava delle occhiate al solo che stava zitto; e lo vedeva sempre lì fermo, senza dar segno d’impazienza né di fretta. L’avrebbe mandato a spasso volentieri, e fatto di meno di quel colloquio”.
Quando le conseguenze delle sue azioni scellerate cominciano a turbare nel profondo la sua coscienza inquinata, don Rodrigo perde i benefici del sonno e i suoi sogni diventano agitati. “Le coperte – scrive Manzoni – gli parvero una montagna. Le buttò via, e si rannicchiò per dormire, ché infatti moriva dal sonno. Ma, appena velato l’occhio, si svegliava con un riscossone, come se uno, per dispetto, fosse venuto a dargli una tentennata”. E quando sarà colto dalla peste, don Rodrigo viene qualificato come “sventurato”. Ormai moribondo, nell’”inferno” del lazzaretto, Manzoni offre una descrizione che miscela gravità e tenerezza, sempre nel segno di quel magistero morale che si ispira a un equilibrio supremo anche e soprattutto nei riguardi dei malvagi. “Stava l’infelice, immoto; spalancati gli occhi, ma senza sguardo; pallido il viso, e sparso di macchie nere; l’avreste detto il viso d’un cadavere, se una contrazione violenta non avesse reso testimonio d’una vita tenace”. Di fronte a questa drammatica visione, fra Cristoforo dichiara: “Può esser gastigo, può esser misericordia”. Pur nella contrazione violenta del suo viso, don Rodrigo comincia a sentire l’afflato dell’eterno, quell’afflato che pervade anche l’affermazione di fra Cristoforo, in virtù della quale rimane inviolato il mistero del giudizio di Dio. Nella sentenza pronunciata dal frate si compie la trasfigurazione tragica di don Rodrigo, il quale, - scrive Manzoni - “su la cima d’un triste mucchio, fra lo strepito e le bestemmie, usciva dal lazzaretto per andarsene alla fossa”.
Gabriele Nicolò