Ep. 5 - Don Abbondio
Il tono medio dei "Promessi Sposi”, che coniuga la rappresentazione dell’ideale e del reale, trova in don Abbondio una chiara esemplarità artistica. Nel tratteggiare la figura del curato, Manzoni piega la dimensione drammatica ad una forma discorsiva. Così facendo, lo scrittore stabilisce un dialogo sotterraneo con il lettore, attraverso l’urgenza di esortare, di ammonire, di istruire. Come scrive Luigi Russo, per Manzoni “il cielo più bello è quello calato sulla terra, è quello mescolato di terreno”. La compresenza del grave e dell’acuto è testimonianza della classicità dell’arte manzoniana, che rifugge da ogni forma di esasperazione romantica.
Don Abbondio, con il suo atteggiamento pavido, tende a far innervosire il lettore che d’istinto vorrebbe che nessuna nube oscurasse la porzione di cielo che sovrasta Renzo e Lucia. Eppure Manzoni, anche se in maniera discreta, quasi nascosta, sembra difenderlo, concedergli delle attenuanti, facendo balenare l’idea che le debolezze di don Abbondio sono, a ben guardare, le debolezze di ciascuno e di tutti.
Nell’episodio che lo vede insieme al cardinale Borromeo e all’Innominato, si tiene più vicino al primo, e non per confidenza ecclesiastica con il porporato, ma perché, istintivamente, tra i due pericoli sceglie il minore. Scrive Manzoni: “Questo, che già gli era vicino, per tenersi lontano da quell’altro signore, che intanto dava un’occhiatina di sotto in su ora all’uno ora all’altro, seguitando a almanaccar tra sé che cosa mai potesse essere tutto quel rigirio, s’accostò di più, fece una riverenza, e disse: “m’hanno significato che vossignoria illustrissima mi voleva me; ma io credo che abbiano sbagliato”.
Nel segno di una comicità funzionale a illustrare il carattere di don Abbondio, Manzoni lo dota di un pleonasmo grammaticale. Egli infatti non si accontenta di dire “mi voleva”, ma con patetica enfasi dichiara: “mi voleva me”. Negli avvenimenti precedenti don Abbondio, chiuso nel suo microcosmo, aveva usato molto spesso il pronome “io”. Quando viene chiamato dal cappellano per l’incontro con il cardinale: “Sua signoria illustrissima e reverendissima vuole lei”, don Abbondio, spiazzato e ansioso, subito esclama: “Me?”, significando in quel monosillabo l’incredulità che nella faccenda ci possa entrare lui, ovvero il suo “io”. In ogni momento, dunque, don Abbondio si configura come l’eroe del suo piccolo ego. E quando l’incalzante susseguirsi delle vicende finisce per incrinare le sue sicurezze, minute ma salde, dice a sé stesso: “Oh se fossi a casa mia!”. E questo ritrarsi riesce, in qualche modo, a metterlo in pratica. Quando infatti il cardinale e l’Innominato si fanno avanti e si mostrano in pubblico, egli si impegna a tenersi un po’ indietro, come a volersi sottrarre a quella contingenza. Così, con arte somma, Manzoni chiosa: “Dietro veniva don Abbondio, a cui nessuno badò”. Nell’animo del personaggio non c’è uno sviluppo della dimensione legata alla vita morale. Don Abbondio risulta essere una sorta di meccanismo caricato sempre di uno stesso pensiero e di uno stesso gesto. In questa ripetizione di uno stesso atteggiamento, di fronte alla variegata gamma di episodi che puntellano la quotidianità, si scorge – scrive Russo -“il fantoccio che prevale sull’uomo”.
La passiva prudenza che regola ogni suo atto fa sì che egli metta alla stessa stregua “i santi e i birboni”. Essi, per l’eroe della piccola ragione, sono vicinissimi tra loro, perché nella falsata prospettiva di don Abbondio si qualificano come i paladini della virtù attiva, la quale finisce per inquietare tutti coloro, lui per primo, che resterebbero molto volentieri “a casa”. Don Abbondio, tuttavia, si nutre di una sua coerenza, per cui in lui non c’è irriverenza quando mette “nella stessa categoria” il cardinale e due facinorosi come don Rodrigo e l’Innominato. Una coerenza che sempre muove dal suo essere pavido. Tale natura lo porta quasi a ergersi a difesa di don Rodrigo, del quale non cessa di temere le losche trame. “Quel birbone di don Rodrigo! – esclama don Abbondio – cosa gli mancherebbe per essere l’uomo più felice di questo mondo, se avesse appena un pochino di giudizio? Lui ricco, lui giovane, lui rispettato, lui corteggiato. Potrebbe andare in paradiso in carrozza, e invece vuole andare a casa del diavolo a piè zoppo”.
Gabriele Nicolò