Ep. 3 - L'Innominato
La predilezione di Manzoni per il graduale evolversi di istanze e dinamiche, nel segno di un perentorio rigetto di toni bruschi e scatti improvvisi, si specchia nella conversione dell’Innominato. Sebbene sia ben impressa nell’immaginario collettivo quella celeberrima “notte” in cui avviene la svolta, il principio della trasformazione del suo animo si manifesta sin da quando egli comincia a provare una certa “uggia” per le sue scelleratezze. L’Innominato avverte una vaga forma di “dispetto” per aver preso quel “brutto impegno” con don Rodrigo riguardo alla vicenda del contrastato matrimonio. In lui si innesca anzitutto la crisi della volontà. “Così in quest’occasione – scrive Manzoni – aveva subito impegnata la sua parola a don Rodrigo per chiudersi l’adito a ogni esitazione. Ma appena partito costui, sentendo scemare quella fermezza che s’era comandata per promettere, sentendo a poco a poco venirsi innanzi nella mente pensieri che lo tentavano di mancare a quella parola, e l’avrebbero condotto a scomparire in faccia a un amico: per troncare a un tratto quel contrasto penoso, chiamò il Nibbio, uno de’ più destri e arditi ministri delle sue enormità”. Nel conferimento di questa delega è già dato di riscontrare un cedimento, sia pure allo stato embrionale, delle difese dell’Innominato. Manzoni, dunque, usa cautela. Da principio parla infatti di uggia e non di rimorso, di memoria e non di coscienza, di dispetto e non di pentimento.
Si arriva poi alla “ripugnanza” per i delitti commessi in passato. Certamente è un termine forte, ma contiene in sé un qualcosa di vago, che non esclude che altri delitti possano essere perpetrati. Come rileva Luigi Russo, l’uggia, il dispetto, la ripugnanza sono ancora stati d’animo fumosi, che non formano “un pensiero consapevole”. La vera conversione comincia quando quegli stati d’animo si nutrono della dimensione della meditazione e poi convergono in un interrogativo cui dare risposta.
Ancora prima di una crisi religiosa, l’Innominato sperimenta, in quel letto divenuto “duro duro”, una crisi filosofica. Con voce strozzata, esclama: “Invecchiare! Morire! e poi?”. È questo pensiero della morte, a cui si congiunge inevitabilmente il pensiero dell’al di là, che inizia la conversione filosofica del protagonista. Come per il Carmagnola, anche per lui la morte non si presenta come qualche cosa di fisico, ma essa stessa è cosa trascendentale. Questo concetto interiore della morte, sottolinea Russo, serve ad annunciare che l’Innominato, per malvagio che sia, vive già in un’atmosfera religiosa.
Una certa critica si è mostrata propensa ad indicare negli “occhi imploranti” di Lucia e nelle “parole catechetiche” del cardinale le cause principali della conversione. In realtà Manzoni, pur nel rispetto del contributo dato da rilevanti contingenze esterne, era profondamente convinto che ogni conversione avviene dal di dentro. È Dio che penetra nell’animo del soggetto, anzitutto come simbolo del presentimento della morte, poi come presenza che induce all’elaborazione, sofferta e incerta, dell’ignoto che viene a configurarsi dopo la morte. È quel Dio che, nel “Cinque Maggio” atterra e suscita, che affanna e che consola.
La crisi dell’Innominato sbocca ad un riconoscimento manifesto di Dio e si traduce nella lapidaria frase: “Io sono però”. Quel “però”, più prosaico che poetico, svolge un ruolo nevralgico nel processo di conversione. Esso sta infatti ad indicare l’acceso dibattito logico che si è scatenato nell’animo del protagonista. Quel “però” è espressione tangibile del dialogo tra un’anima e Dio, un dialogo che procede per vie di mute argomentazioni. Per alcuni puristi, il “però” ha incrinato la dimensione estetica della pagina, corrompendone la bellezza fonica che la pervade. Ma senza di esso, sarebbe stato tradito, in filigrana, il principio ispiratore dell’impianto narrativo, incentrato sulle contorsioni, tribolazioni e vaneggiamenti di un animo in crisi, che arriva finalmente a conquistare la luce dopo una serrata e spietata tenzone – da principio ingaggiata nelle tenebre – tra cuore e ragione.
Gabriele Nicolò