La magia di Redford, divo e coscienza civile di Hollywood
Rosario Tronnolone - Città del Vaticano
Marlene Dietrich diceva che Robert Redford era l’unica star del cinema contemporaneo che potesse reggere il confronto con le grandi star del cinema che lei aveva conosciuto. Quel cinema di cui era stata indiscussa protagonista. Una bellezza e una fotogenia bullet-proof, di quelle cioè che non hanno angolazioni sbagliate, ma solo nuove possibilità di contemplazione. I capelli biondo grano, il sorriso disarmante del vincitore, lo sguardo vulnerabile e ferito, ne hanno fatto sullo schermo il soggetto di una identificazione idealizzata da parte di noi spettatori che per un’ultima volta ci illudiamo, ricordando com’era, di immaginarci “come eravamo”.
Il fascino senza tempo del “biondo silenzioso”
Quelle stesse caratteristiche hanno fatto innamorare signore dello schermo come Barbra Streisand, Jane Fonda e Meryl Streep, ma tutte costoro, che pure sembravano a tutta prima aver gioco facile con quel biondo silenzioso e all’apparenza remissivo, finivano poi col cuore ammaccato, eppure inspiegabilmente grato. Paradossalmente, se le partner forti e volitive finivano tutte perdenti, la più fragile di loro, la vitrea Mia Farrow/Daisy del Grande Gatsby è per contrappasso quella che gli rovinava la vita per un amore mai corrisposto fino in fondo, e ne provocava, più o meno indirettamente, la morte. Personaggio imprescindibile, in questo ricordo post mortem, resta quel funereo Grande Gatsby che incarnò con assoluta naturalezza, quasi riconoscesse nella parabola del protagonista del romanzo di Francis Scott Fitzgerald, parte del suo vissuto personale: diciottenne traumatizzato dal lutto per la morte della madre, giovane bruciato pericolosamente dedito all’alcol, grazie all’amore di una donna - poi sua moglie per quasi trent’anni -, trova la via del riscatto e del successo. “Il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non poter sfuggire più”, scrive Fitzgerald: nel romanzo, l’amore non era “di” una donna, ma “per” una donna, e questo faceva tutta la differenza.
Un impegno oltre il set: Sundance e ambiente
Ma Redford non fu soltanto un divo capace di imprimere nell’immaginario collettivo volti e storie indimenticabili. Con la creazione del Sundance Institute e del relativo Festival nello Utah, volle offrire spazio e visibilità a giovani autori, registi e attori, sostenendo il cinema indipendente e dando voce a narrazioni fuori dagli schemi dominanti di Hollywood. E accanto alla sua passione per l’arte, coltivò sempre un impegno civile profondo: difensore della natura e promotore di campagne a favore dell’ambiente, fu tra le voci più autorevoli nella denuncia dei cambiamenti climatici, schierandosi a tutela dei più fragili e delle comunità indigene.
L’ultima immagine: credere per far credere
Ma l’immagine che più d’ogni altra mi insegue in questo ricordo, in cui la nostalgia si tinge di rimpianto, non è quella, pur così vivida, del lancio delle camicie, simili a farfalle di seta di mille sfumature pastello, del Grande Gatsby, o quella - che mi strappa un largo sorriso - di lui ubriaco, a piedi nudi nel parco, o quella del finale solenne di Brubaker, in cui lui è l’unico, sullo schermo e in sala, a non piangere; piuttosto è quella dell’ultima volta che l’ho visto sullo schermo, alla Festa del Cinema di Roma, in una proiezione mattutina per la stampa, quelle a cui si arriva frettolosamente, un po’ infreddoliti dall’improvviso autunno di metà ottobre. Il film era The Old Man and the Gun, e lui interpretava un bandito, come in Butch Cassidy. Inseguito, circondato dalle auto della polizia, senza via di scampo, si fermava in un prato, usciva dalla macchina, e sotto la minaccia delle armi puntate contro di lui, mimava con tre dita della mano destra una pistola, come fanno i bambini, e per magia il rumore di uno sparo invadeva lo schermo. Mirabile essenza di quel gioco serissimo che è l’arte della recitazione: credere per far credere.
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