Giubileo della Consolazione, Lucia e Antonio: quando il perdono è più forte del dolore
Benedetta Capelli – Città del Vaticano
Questa è una storia dolorosissima, si intreccia con la violenza ad opera di giovani sbandati e con la morte che annienta i sogni, cancella il domani, fa precipitare nel buio una madre e una figlia. Ma è anche una storia di fede, di riscatto, di riscoperta di valori, di bambini che insegnano ad un padre ad avere fiducia nel futuro. È la storia di una donna, Lucia Di Mauro Montanino, con un senso di giustizia innato, abituata a prendersi cura degli altri e a voler cambiare le cose soprattutto se di fronte a sé ha uomini, come Antonio, a cui è stata negata l’infanzia. Giovani che hanno sperimentato la solitudine e che senza direzione hanno trovato naturale delinquere; come se rubare e aggredire potesse sopire la rabbia di essere stati figli e bambini invisibili.
Lucia porterà oggi pomeriggio, 15 settembre, la sua testimonianza davanti a Papa Leone XIV durante la Veglia di preghiera nella Basilica di San Pietro, culmine del Giubileo della Consolazione. Racconterà dell’incontro con uno degli assassini del marito Gaetano. Lui era l’amore della sua vita, lo chiamavano “il biondo”, adorava la divisa e ancora di più sua figlia Veronica. Nell’estate caldissima del 2009, il 4 agosto, il giorno prima del suo onomastico, a Napoli in un giro di controllo lui e il suo collega vengono sorpresi da alcuni ragazzini che vogliono le loro pistole. Gaetano, 45 anni, non cede alle pressioni dei rapinatori e viene crivellato di colpi, il compagno riesce a salvarsi. La vita di Lucia da quel giorno cambia improvvisamente, quella svolta non sarà l’unica, ne seguiranno altre, inattese e sorprendenti.
Una mamma che consola
“Sono molto emozionata e felice di prendere parte al Giubileo della Consolazione", racconta Lucia ai media vaticani. "A me è toccato tante volte consolare questo ragazzo, nella mia storia sento sempre di essere una mamma che consola”. Il “ragazzo” è Antonio, l’unico minorenne del gruppo che ha ucciso suo marito Gaetano. Non ha sparato ma ha partecipato all’agguato. A 17 anni, in preda alla paura e all’incoscienza, sceglie la latitanza in Spagna, si porta dietro la sua giovane fidanzata che proprio in quel periodo scopre di aspettare un bambino. Troppo. Tutto troppo nella vita di un giovane nemmeno maggiorenne che ha già compromesso la sua strada ed ha come unica prospettiva il carcere di Nisida. Sarà proprio tra quelle sbarre che riprenderà a vivere, a respirare aria pulita, a comprendere che si deve chiedere perdono se si è commesso uno sbaglio, il più grande tra tutti gli sbagli.
Non odio né rancore
Lucia è un'assistente sociale, protesa verso il prossimo fin dall’infanzia. “Quelli che hanno ucciso Gaetano erano quattro ragazzi, Antonio guidava il motorino, ha preso una condanna a 22 anni di galera per omicidio. Mi sono sempre chiesta: che cosa noi grandi, noi genitori abbiamo fatto per i giovani di questi quartieri difficili? Quasi nulla, direi... Mi sono accorta che poco ci interessa se questi ragazzi non conoscono niente della vita, se conoscono solo il sopravvivere, non la cultura, lo sport, le ambizioni sane. Tutto questo mi ha fatto capire che noi grandi eravamo e siamo responsabili di questi ragazzi e del loro comportamento”. Nasce da qui la ricerca di Lucia e la sua necessità di dare un significato diverso all'omicidio del marito: “Non volevo provare un senso di odio, di rancore ma cercavo un impegno verso la società perché sentivo che non avevo fatto abbastanza”.
Un senso al sangue innocente
“Secondo me Dio mi ha dato l'opportunità di dare una svolta a questa storia facendo qualcosa di concreto, capendo che potevo cambiare le cose”. Per molti anni Antonio cerca un contatto con la famiglia di Gaetano, Lucia non accetta ma dentro di sé si fa spazio un pensiero: “Sapevo che dovevo guardare in faccia il male, chi mi aveva tolto la cosa più cara, la mia famiglia”. Comprende che serve un incontro, ma intorno a sé questa possibilità genera malumori e critiche. “All'inizio è stato proprio difficile perché – racconta - per tanti significava andare a braccetto con l'assassino, significava che stavo aiutando chi meritava di non uscire più di galera, ma il motivo era un altro”. Il pensiero che la salva è Gaetano. “Volevo dare un senso a quel sangue, a quel sangue innocente che era stato versato. Per me era una consolazione sapere che la morte di mio marito poteva servire a salvare un ragazzo e, nel caso di Antonio, salvare una famiglia perché lui intanto si era sposato e aveva avuto due bambini”.
La pietra di scarto
Accanto a Lucia c’è l'associazione Libera di don Ciotti, ci sono le famiglie delle vittime di mafia, c’è la fede che diventa la sua ancora di salvezza nei tantissimi momenti duri vissuti. Lei, dopo diversi colloqui con gli educatori di Antonio, sente che deve dare fiducia per farlo davvero cambiare. “Mi piace sempre dire che la pietra di scarto può diventare la pietra d'angolo, a volte proprio per il fatto che questi ragazzi hanno sbagliato possono essere di esempio agli altri e mostrare loro una vita migliore”. Lucia parla di riconciliazione, più che di perdono, di possibilità da concedere per far sparire il male. “Antonio sarebbe uscito a 40 anni, avrebbe potuto fare ancora molto male, sentivo che dovevo aiutarlo ad essere una persona migliore, dovevo aiutare quella famiglia, quei bambini a crescere in un modo sano, sereno, non con un papà in galera, con difficoltà economiche, relazionali”. L’occasione arriva inattesa, una giornata di commemorazione, Lucia e Antonio nello stesso luogo. Il bene e il male. Ma quel male, racconta la donna, ha le sembianze di un ragazzo che sembra uno scricciolo, magro, piccolo e che piange ininterrottamente. L’abbraccio che lei gli dà è l’abbraccio di una donna forte, più di lui, perché il bene vince, si fa restituzione, diventa incontro e cambia entrambi.
Il dolore, una forza
“Antonio – spiega Lucia – mi dice sempre che io sono la sua vera madre. Questo mi onora, mi dà forza perché alla fine essere madre, oltre a mia figlia, di un figlio che ha sbagliato, di una persona che aveva bisogno di una guida, che aveva bisogno di riferimenti è una cosa bellissima”. Lei confida di non essere sempre dolce, fa notare le cose ma poi “è bello vedere i risultati quando diventi il punto di riferimento di una persona che era allo sbando”. I figli di Antonio la chiamano addirittura “nonna”. “A chi vive un dolore – spiega Lucia, riferendosi al Giubileo della Consolazione - è di non chiudersi e di aprirsi verso il mondo e di fare di quel dolore una forza, mettersi in gioco, non sentirsi solo vittima, ma capire che cosa si può fare e come andare avanti anche in nome di chi non c'è più”. “Conosco le storie di tanti familiari di vittime innocenti, che sono morti ingiustamente, per i casi più assurdi, consoliamoci nel fare perché è l'unica cosa che ci rimane. Non bisogna chiudersi in quel dolore che non ci fa vivere, bisogna invece continuare a vivere, porsi degli obiettivi e guardare anche con fiducia la vita per diventare parti attivi di un cambiamento”. Una vita che riprende così a volare con Gaetano nel cuore.
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