Da Gaza al Sudan la fame come arma
Valerio Palombaro - Città del Vaticano
Le guerre continuano a diffondere la fame nel mondo. Da Gaza al Sudan, ma anche oltre i due più cruenti conflitti attivi nel mondo. «Non dobbiamo mai accettare la fame come un’arma di guerra», ha ammonito in settimana il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, parlando al vertice Onu sui sistemi alimentari di Addis Abeba. Dalla capitale etiope, cinque agenzie dell’Onu (Fao, Ifad, Unicef, Wfp e Oms) hanno diffuso il rapporto Sofi 2025 sullo stato della sicurezza alimentare e della nutrizione nel mondo: circa 673 milioni di persone, ovvero l’8,2 per cento della popolazione mondiale, ha sofferto la fame nel 2024. Una tendenza in lieve calo rispetto all’8,5 del 2023, ma con sacche molto preoccupanti in particolare in Africa dove nel 2024 hanno sofferto la fame 307 milioni di persone pari a più del 20 per cento della popolazione.
Il dramma dei bambini di Gaza
A Gaza, come attestato nei giorni scorsi dalle dure immagini dei bambini ridotti a scheletri, c’è una situazione senza paragoni. L’Integrated food security phase classification (Ipc), sistema globale di monitoraggio sostenuto dall’Onu, ha avvertito che nella Striscia è in atto «lo scenario peggiore di carestia». «Questo è diverso da qualsiasi altra cosa abbiamo visto in questo secolo», ha dichiarato ai giornalisti a Ginevra il direttore delle emergenze del Programma alimentare mondiale (Wfp), Ross Smith: «Ci ricorda i disastri avvenuti in Etiopia o nel Biafra nel secolo scorso».
Concorda con questa visione il direttore generale di Azione contro la fame (Acf), Simone Garroni: «La situazione a Gaza è veramente catastrofica; il 100 per cento della popolazione si trova in uno stato di bisogno alimentare e in molte zone della Striscia ormai abbiamo toccato o superato la soglia della carestia», afferma il direttore dell’organizzazione umanitaria internazionale. Nella Striscia di Gaza, sottolinea Garroni, «ci sono 20.000 bambini in stato di malnutrizione acuta e, nelle ultime due settimana, almeno 16 di loro sono morti». Il direttore di Acf ritiene che, nella situazione catastrofica attuale, la risposta che viene data è del tutto inadeguata. «Il sistema di aiuti tramite la Gaza Humanitarian Foundation non è funzionale a soddisfare i bisogni della popolazione e non risponde ai principi umanitari — osserva —. Quindi bisogna procedere a un cessate-il-fuoco immediato, all’apertura dei valichi e al ripristino del sistema di aiuti umanitari coordinati dall’Onu. Oggi ci sono quattro punti di distribuzione del cibo, che sono peraltro diventati dei luoghi di massacro e di insicurezza rispetto ai 400 punti di distribuzione che c’erano in precedenza».
L'emergenza Darfur
Un’altra grave guerra che fa diffondere la fame nel mondo è quella che da quasi due anni e mezzo lacera il Sudan. Secondo la rete di medici Sudan Doctors Network, citata dall’agenzia di stampa Associated Press, 13 bambini sono morti nell’ultimo mese per cause legate alla malnutrizione in un campo profughi di Lagawa, nel Darfur orientale. L’Onu ha denunciato che nella città assediata di El Fasher, nel Darfur settentrionale, le «persone stanno morendo di fame e malnutrizione». Le cucine umanitarie sono state chiuse per mancanza di scorte alimentari. «Alcune persone hanno cominciato a consumare alimenti che un tempo si davano agli animali», ha denunciato un portavoce dell’Onu, confermando quando indicato nei giorni scorsi dalle autorità della città sotto assedio.
Il risultato dell'inerzia
La fame, anche nel 21° secolo, torna così a essere arma di guerra. «La fame non è una tragedia naturale, ma una conseguenza diretta di scelte politiche. Non è il risultato della scarsità, ma dell’inerzia», prosegue Garroni, che sottolinea come il rapporto Sofi si basa su una fotografia del 2024 e non include gli effetti dei recenti tagli agli aiuti umanitari da parte degli Usa e di alcuni governi europei: «Uno studio pubblicato il 1° luglio 2025 sulla rivista scientifica The Lancet — una delle più prestigiose e autorevoli testate mediche a livello globale — lancia un allarme drammatico: senza un’inversione di rotta, entro il 2030 potrebbero morire ogni anno 14 milioni di persone a causa della fame, di cui 4,5 milioni sono bambini sotto i 5 anni». Il rapporto Sofi traccia un quadro a luci e ombre, con alcuni progressi in Asia e America Latina a cui fa da contraltare un ulteriore peggioramento della situazione in Africa. «A causa del taglio degli aiuti — afferma Garroni — abbiamo già sperimentato la chiusura di alcune strutture, come le nostre cliniche di salute mobile in Repubblica Democratica del Congo e in Sudan. E teniamo conto che, anche prima del taglio degli aiuti, i bisogni umanitari erano non finanziati già per due terzi (mancava il 65 per cento dei fondi)».
Le conseguenze dei tagli agli aiuti
In Repubblica Democratica del Congo, per esempio, circa 12.000 bambini sotto i 5 anni non ricevono più trattamenti per malattie infantili comuni, il numero di visite nei centri sanitari di Acf si è dimezzato e 650 nuovi casi di malnutrizione severa registrati non possono essere curati. Anche nella provincia di Cabo Delgado, in Mozambico, duramente colpita da otto anni di conflitti armati e sfollamenti, più di 30.000 persone hanno perso l’accesso ad aiuti alimentari a causa della sospensione di progetti salva-vita. In Madagascar due basi operative sono state chiuse, 200 dipendenti licenziati e 10 cliniche mobili sospese, a danno di oltre 5.000 bambini severamente malnutriti e 1.900 bambini malati. In Ucraina è stato sospeso il supporto psicologico a 200 bambini e alle loro famiglie; in aggiunta, 8 centri sanitari, che assistono circa 18.000 persone, non hanno potuto ricevere le attrezzature e la formazione necessarie. E soffrono molto anche le attività in Paesi come Ciad, Nigeria, Burkina Faso, Giordania e Afghanistan. Ma «la fame non è inevitabile», insiste il direttore di Acf rimarcando che serve la volontà politica: «È necessario che le istituzioni internazionali e i governi prendano con maggiore coraggio decisioni su conflitti, clima, disuguaglianze perché si possa invertire la rotta. Perché non è più sostenibile».
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