Afghanistan, quattro anni fa il ritorno dei talebani
Stefano Leszczynski - Città del Vaticano
Rientrano a milioni gli afghani, cacciati dai Paesi limitrofi – Iran e Pakistan – in cui avevano trovato rifugio dopo il ritorno al potere dei talebani. Dall’inizio dell’anno precisa l’agenzia Onu per i rifugiati sono due milioni e duecentomila gli afghani che hanno attraversato il confine e il 60% ha meno di 18 anni. I rimpatriati arrivano in un Paese già segnato da cambiamenti climatici, crisi umanitaria ed economia stagnante. In questa situazione, i talebani hanno invitato i Paesi vicini a evitare i rimpatri forzati e a trattare gli afgani con dignità. Un paradosso se si pensa al contesto che troveranno: mancanza di opportunità sociali, educative ed economiche; per le donne sole l'obbligo di avere un tutore maschio per uscire di casa.
Il tradimento dell'Occidente
La ricorrenza del 15 agosto fa riferimento alla presa di Kabul da parte dei talebani, ma questo è solo l’episodio simbolo della vergognosa e frettolosa fuga dal Paese asiatico della coalizione internazionale nel 2021. “Gli afghani non dimenticano di essere stati abbandonati”, spiega Livia Maurizi, direttrice di Nove Caring Humans, ong italiana presente nel Paese ininterrottamente dal 2013. Il sentimento del tradimento viene vissuto quotidianamente soprattutto da quelle donne che nei venti anni di occupazione Occidentale hanno potuto studiare e formarsi ed ora si vedono negato ogni diritto all’esistenza. Di Afghanistan non si sente più parlare, con tutta l’attenzione mediatica concentrate sulle emergenze di Gaza e dell’Ucraina, senza contare la difficoltà di tenere in piedi i progetti di cooperazione dopo la cancellazione dei finanziamenti di UsAid e la forte riduzione di quelli europei.
La difficoltà di operare nel Paese
“Il lavoro per una ong internazionale oggi è molto complesso, - aggiunge Maurizi - perché ci ritroviamo a dover entrare in contatto direttamente con l'emirato islamico, i talebani, e non è sicuramente un rapporto facile. Quindi ci ritroviamo giornalmente a dover negoziare con loro su quello che possiamo o non possiamo fare nel realizzare i nostri progetti che sono mirati in particolare al miglioramento della condizione femminile”. Nonostante la chiusura del regime ad ogni partecipazione femminile nella società, anche tra i talebani c’è chi si rende conto di escludere metà della popolazione dal sistema produttivo. Secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo la partecipazione femminile al lavoro è crollata dall’11% del 2022 al 6% del 2023.
Restituire un ruolo alle donne
“Come ong – ricorda Maurizi - siamo riusciti anche quest’anno a lanciare un premio per l'imprenditoria femminile, il Women Business Prize, perché le donne effettivamente nella maggior parte dei casi non possono lavorare, ma il settore privato che fa riferimento al business femminile è ancora attivo, chiaramente con le sue limitazioni. In qualche modo, queste donne mettono in atto anche un cambiamento sociale, perché assumono altre donne permettenfo loro di tornare ad essere soggetti attivi all'interno della società afghana”. Diversa la situazione che si vive nelle zone rurali, dove il primo problema è quello della sussistenza, se non della pura sopravvivenza. Nella parte orientale del Paese, aggiunge la direttrice di Nove Caring Humans, il progresso può passare anche solo dal possesso di una capra e di pochi attrezzi per l’agricoltura.
Sanità negata
Se quello che ormai viene definito senza mezzi termini come ‘apartheid di genere’ rappresenta un’emergenza umanitaria e sociale trasversale in tutto il Paese, il taglio dei finanziamenti internazionali ha colpito anche un altro settore fondamentale come quello sanitario. Nel suo ultimo report sull’accesso alle cure d’urgenza in Afghanistan, l’ong Emergency ha denunciato che oltre il 70% della popolazione non ha accesso alle cure e chi non può farne a meno spesso si indebita chiedendo denaro in prestito o vendendo i propri beni. Un afghano su quattro deve annullare un intervento perché non può pagarlo e le mine, che infestano il Paese, continuano a mietere vittime.
La crisi degli alloggi
Tra i più recenti sintomi del dissesto economico della società afghana e della crescente povertà c’è, infine, nei centri urbani una grave crisi alloggiativa. Semplicemente non ci sono abbastanza case abitabili e il regime continua ad abbattere interi quartieri a Kabul, con il pretesto di una fantomatica riqualificazione urbana. Una situazione che ha provocato un’impennata nei prezzi degli affitti, inarrivabili per una popolazione che per oltre l’80% vive al di sotto della soglia di povertà.
Lavorare sul lungo periodo
“Noi cerchiamo di lavorare su due canali: da un lato, aiutiamo le persone che stanno morendo di fame, dall’altro, cerchiamo di offrire degli strumenti per far sì che le donne possano poi sopravvivere nel lungo periodo”, spiega Maurizi. Va letto in questo senso il progetto Bread for Women, Pane per le Donne, che si concentra sulla ristrutturazione dei forni per il pane “per far sì che queste donne possano poi continuare in autonomia con questa attività nel futuro”. In un Paese dove manca tutto, serve tutto, anche a chi in questo momento lo amministra. È per questo che vengono tollerate iniziative di microimpresa femminile per fronteggiare il disastro ambientale dell'Afghanistan attraverso l’introduzione di tecniche di riciclo e di riuso. Questi progetti sono importanti anche per rafforzare o creare relazioni positive con le autorità locali. “Mettere in piedi progetti di questo tipo è fondamentale, perché sono ambiti che chiaramente l'emirato non conosce e quindi, pur con tutte le restrizioni, quello che noi cerchiamo di mostrare sono le ricadute positive sull’intera comunità”.
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