Cambogia e Thailandia concordano il cessate-il-fuoco
Guglielmo Gallone - Città del Vaticano
Thailandia e Cambogia hanno raggiunto il cessate-il-fuoco e siglato un accordo nella notte a Putrajaya, in Malaysia. L’incontro di ieri tra il primo ministro cambogiano, Hun Manet, e quello thailandese ad interim Phumtham Wechayachai, si è svolto sotto l’egida di quello malesiano, Anwar Ibrahim. Gli scontri tra Bangkok e Phnom Penh sono duranti solo sei giorni, eppure hanno scosso l'intero Sud-Est asiatico.
Il ruolo di Malaysia, Cina e Usa
Lo dimostra anzitutto il fatto che, per raggiungere il cessate-il-fuoco sancito nella notte a Putrajaya, è stato fondamentale il contributo della Malaysia, presidente annuale dell’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (Asean), ma soprattutto leader regionale che si conferma ancora una volta mediatore nei conflitti armati. Questo sforzo è stato apprezzato anche da potenze regionali come il Vietnam, che questa mattina ha parlato di una «svolta significativa», e il Bangladesh. Rilevante in fase negoziale è stato inoltre l’apporto di due grandi potenze, Cina e Stati Uniti, a testimonianza della centralità del Sud-Est asiatico e della necessità di sedare possibili nuovi scenari di guerra. Pechino si è espressa a favore della moderazione regionale, mentre Washington, attraverso il presidente Donald Trump, ha rivendicato di aver «salvato migliaia di vite» facendo leva sul commercio. In precedenza la Casa Bianca aveva subordinato i colloqui sui dazi indirizzati a Bangkok e Phnom Penh proprio al raggiungimento di un cessate-il-fuoco tra le parti.
Un conflitto breve ma intenso
A scuotere l’intera regione sono stati poi i numeri di un conflitto che, sebbene molto limitato nel tempo, ha provocato almeno 38 vittime e circa 300.000 sfollati. A ciò bisogna aggiungere due grandi temi, tanto bellici quanto etici, che sono emersi in questa settimana: l’accusa rivolta alla Cambogia da parte della Thailandia di aver piazzato nuove mine antiuomo lungo il confine e quella cambogiana secondo cui Bangkok ha utilizzato munizioni a grappolo. Fatti che testimoniano l’efferatezza nella quale può sfociare un conflitto sì localizzato ma non per questo privo di possibili conseguenze tragiche.
L'incognita del nazionalismo
Anche perché diverse fonti locali continuano a parlare di un incremento del nazionalismo. Lo aveva detto giorni fa ai media vaticani monsignor Olivier Schmitthausler, Vicario apostolico di Phnom Penh, secondo cui nella popolazione cambogiana «sta crescendo un forte senso di nazionalismo. Sostengono il governo, sostengono l’esercito e si dicono pronti a combattere». E lo aveva ribadito anche la Conferenza episcopale thailandese che, in un comunicato dello scorso 26 luglio, evidenziava «i pericoli del nazionalismo estremo, che può portare a divisioni e conflitti gravi, minando la dignità umana e ostacolando i reali sforzi per una risoluzione pacifica» del conflitto.
Il rischio di una pace instabile
Questa situazione a livello umano e sociale si aggiunge a una contesa su un confine sì limitato geograficamente ma le cui radici sono radicate nella storia, nell’identità dei due Paesi — basti pensare al simbolico tempio Preah Vihear — e nel colonialismo occidentale, rischiando così di rendere instabile il cessate-il-fuoco. Già questa mattina l’esercito thailandese ha accusato la Cambogia di aver violato gli accordi, favorendo disordini nella zona di Phu Makua e di Sam Taet che hanno portato a uno scambio di colpi tra le parti protrattosi fino a stamattina. Poco dopo si è comunque tenuto un incontro tra i comandanti delle Forze armate dei due Paesi per avviare il cessate-il-fuoco: le parti si sono impegnate a interrompere le ostilità, fermare il movimento e il rinforzo delle truppe, cooperare nel rimpatrio di feriti e deceduti, istituire una squadra di coordinamento congiunta formata da quattro membri per parte. Nella speranza che Cambogia e Thailandia trovino la fiducia reciproca per porre fine a questo lungo conflitto.
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