Myanmar, una suora: andiamo nei campi profughi per aiutare gente senza più nulla
Federico Piana - Città del Vaticano
Le s’è stretto un nodo in gola quando ha visto la sua casa natale completamente distrutta. Non ha trattenuto le lacrime quando ha girato per le strade spettrali della sua piccola città rasa al suolo dalle bombe: stessa sorte, triste e sanguinosa, che non ha risparmiato nemmeno i villaggi a centinaia di chilometri di distanza. Ma il suo cuore ha rischiato di scoppiare davvero quando si è accorta che la parrocchia locale che lei frequentava era stata assaltata e occupata dai militari.
Sopraffazione e violenze
Suor Naw Elsi, ogni volta che può, non perde occasione per tornare in Myanmar. Lì c’è ancora la sua famiglia, lì c’è una popolazione che ha bisogno d’aiuto, presa tra gli scontri dell’esercito e dei gruppi armati che cercano di guadagnare posizioni a colpi di mortaio ed attentati. Proprio recentemente che la religiosa birmana appartenente all’ordine delle Suore ancelle missionarie del Ss.mo Sacramento, allontanatasi dalla sua nazione per motivi di apostolato, si è ritrovata di nuovo immersa in una tragedia la cui drammaticità potrebbe trovare la sua sintesi in una frase che ormai ripete spesso con rassegnata desolazione: «In Myanmar nessun luogo è sicuro».
Lacrime e disperazione
In uno dei giorni delle sue vacanze trascorse nel Paese del sudest asiatico, suor Elsi ha dovuto consolare un suo piccolo nipote che era tornato a casa dopo essere fuggito con i suoi compagni dalla scuola nella quale stava facendo lezione: sull’edificio volteggiava sinistramente un elicottero che avrebbe potuto iniziare a sparare da un momento all’altro, come altre volte è successo. «Quel bambino era stravolto ed impaurito. Io avevo le lacrime agli occhi perché anche a me, una domenica mattina, era capitata la stessa cosa. Stavo andando alla celebrazione della Messa quando ho sentito il rumore di un elicottero che si trovava molto vicino alla parrocchia. Insieme a me, tutti i fedeli sono fuggiti», racconta la religiosa in una conversazione con i media vaticani. Anche andare a messa e andare a scuola, ormai, vuol dire mettere a repentaglio la propria vita.
Dolorosi abbandoni
In fondo all’anima di suor Elsi ci sono stampate, in modo indelebile, le immagini delle parrocchie e delle strutture ecclesiali distrutte dai missili o date alle fiamme dall’esercito. E ogni giorno che passa sono sempre più numerose: «Vescovi, sacerdoti e fedeli sono stati costretti ad abbandonare la loro cattedrale, il loro centro pastorale, le loro case. E ora vivono come sfollati. Molti preti e molti laici sono stati addirittura aggrediti e uccisi mentre stavano partecipando alla celebrazione eucaristica». Riuscire a trovare un posto sicuro dove riunirsi per pregare è molto difficile, non solo per i cristiani: suor Elsi conferma che numerosi templi buddisti sono stati rasi al suolo, così come diversi luoghi sacri di altre religioni sono stati completamente attaccati.
Esistenza negata
Al popolo non è negata solo la fede ma anche la sopravvivenza: «Manca acqua, cibo, riparo, cure mediche. Alcuni, per sfuggire alle violenze, fuggono nella foresta. Altri costruiscono delle tende in un luogo remoto». Chi li aiuta in questo terribile frangente sono suore, sacerdoti, laici impegnati. Portano loro da mangiare, gli costruiscono un posto dove riposare la notte, curano la loro salute come possono.
Carità e Vangelo
Nelle parole di suor Elsi si intravede tutta la carità del Vangelo quando spiega che non fanno solo questo ma vanno oltre: «Li sostengono nell’istruzione, insegnano loro il catechismo, danno consigli su come guadagnarsi da vivere. C’è perfino chi costruisce una cappella per pregare insieme». Poi c’è la dimensione dell’ascolto che per la religiosa è essenziale se si vuole tentare di pacificare la nazione. E la Chiesa locale non si tira indietro. Nonostante le bombe e gli assalti armati, dice, «i vescovi, il clero e i responsabili delle associazioni laicali si sono recati nei campi profughi per ascoltare la gente e comprenderne il dolore e le difficoltà, incoraggiandola a continuare a vivere per i propri figli, per gli altri e per sé stessi»
Prendersi cura
Quando suor Elsi torna in Myanmar per le sue vacanze, dà una mano alle sue consorelle e ai sacerdoti che si prendono cura dei bambini poveri assistendoli nella formazione cristiana e condividendo cibo e parole di speranza. «Ma i nostri vescovi — aggiunge — stanno cercando anche di dialogare con i leader dell’esercito per chiedergli di smettere di fare la guerra. Noi, come ci insegna la Chiesa, non perdiamo mai la speranza».
Speranza dura a morire
Le violenze che si consumano quotidianamente non fanno altro che rendere difficile anche il sostegno umanitario che la comunità internazionale sta tentando di portare nel Paese dopo l’epidemia di Covid 19 — che ha lasciato degli strascichi sanitari profondi — le recenti alluvioni e il terremoto che nel marzo di quest’anno ha provocato migliaia di morti e di sfollati.Per raggiungere i campi profughi che suor Elsi visita con regolarità si devono percorrere strade impervie e pericolose, che con la stagione delle piogge diventano fangose e quasi impraticabili. In questi inferni a cielo aperto ci sono uomini, donne e bambini che si sono rifugiati lì per fuggire dagli attacchi armati o perché hanno perso tutto a causa del sisma o della potenza delle inondazioni: tra dolore e dolore non c’è più alcuna differenza. «A tutti manca tutto — ricorda la religiosa—. Molti bambini soffrono anche di malattie dovute alla scarsa igiene che purtroppo non si possono curare facilmente. Ma io ho visto le nostre suore prendersi cura di loro con grande responsabilità, amore e disponibilità». Eccola qui, nonostante tutto, la speranza che ancora non è morta.
#sisterproject
Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui