Il cappellano pellegrino con i detenuti: ripensare il carcere come luogo di speranza
Antonella Palermo - Città del Vaticano
Oggi, 9 agosto, la porta del carcere si chiude di nuovo. È quella della Casa circondariale Santa Maria Maggiore, a Venezia, dove rientrano i tre detenuti che, in permesso speciale, hanno potuto compiere nei giorni scorsi il pellegrinaggio giubilare fino a Roma suggellato, il 7 agosto, dall'incontro in Vaticano con Papa Leone XIV. "Speriamo che nel loro cuore ci sia questo semino di speranza e che sia più forte del rumore della porta blindata che si spranga alle proprie spalle", dice ai media vaticani il cappellano del penitenziario don Massimo Cadamuro che ripercorre il percorso fatto.
Poche ore di libertà hanno riacceso il desiderio
"L¡¯abbiamo pensato quando Papa Francesco ha indetto il Giubileo. Ci sembrava importante vivere l¡¯esperienza del cammino. Un¡¯esperienza molto bella e l¡¯arrivo a Roma è stato il coronamento", racconta il sacerdote. Parla di vera "grazia" e accenna alle pagine del diario di viaggio su cui a fine giornata i pellegrini hanno scritto emozioni e riflessioni, diario che hanno regalato al Papa. Ne sono affiorate tante, insieme a desideri, progetti. Perché dentro una cella anche il desiderio si spegne e, se si spegne, è finita. "Ogni giorno, la sera, facevamo il punto. Condividevamo le nostre impressioni, ristretti e non. Emergeva il senso di familiarità vissuto da persone che non venivano identificate in base al reato commesso, ma venivano considerati uomini amati per quello che sono". Assaporare la libertà, anche se per poco, ha innescato la voglia di ricostruirsi, una volta usciti dal carcere. "E poi la presenza di Dio nella propria vita, riscoprire un Dio che non è un giudice ma è un Dio che ti dona una vita più autentica. Hanno intuito che Gesù dona loro la speranza legata alla fiducia. L¡¯hanno recuperata come l¡¯alimento della propria vita. In Gesù diventa possibilità concreta". I detenuti si incoraggiavano l¡¯un l¡¯altro. Alla vista di un torrente, racconta don Massimo, facevano a gara anche solo per poter fare due passi". Emergevano ricordi di una gioventù lontana. E poi mangiare insieme, condividere il pasto con molta pace.
Il carcere sia un luogo che educa alla speranza
A concorrere al benessere psico-fisico di chi, a piedi da Terni a Roma per cinque giorni, ha camminato in condizioni non comode, è stato l'obiettivo, avere una meta fissata. Cosa che il tempo in prigione vanifica, nella ripetitività di gesti, nell'annichilimento e nel degrado che in tante realtà carcerarie si sperimenta. "Papa Leone, incontrandoci, ci ha davvero sorpreso, ci ha accolto con molta mitezza e disponibilità e, soprattutto, ci ha detto 'anch¡¯io ho bisogno di speranza'. E poi ha aggiunto il suo grazie per la nostra presenza perché, ha detto 'voi siete un seme di speranza'. Ci ha confermato dunque nella strada che abbiamo intrapreso e nella strada di ripensare anche la dimensione del carcere, affinché sia un luogo che possa educare alla speranza", spiega don Massimo. Ricorda la fatica del camminare, la associa alla fatica del carcere, in qualche modo uguale e contraria. L'una che si sopporta meglio perché punta a una finalità fatta di pacificazione e riconciliazione; l'altra che il più delle volte fa implodere in sé stessi e, in troppi casi, induce anche al suicidio.
Considerare percorsi di pena alternativa
In Italia in questa settimana si è consumato il 53.mo suicidio in carcere dall'inizio dell'anno. "Il fatto è che a volte il carcere ti toglie la speranza e si arriva fino a questi gesti estremi che noi conosciamo molto bene anche alla Casa di reclusione S. Maria Maggiore. Per fortuna la cosa si è ricomposta da noi. Il carcere è troppo faticoso". Sovraffollamento, stato di sotto organico della Polizia penitenziaria... temi ben noti da lungo tempo ma che si sono ormai incancreniti. Il cappellano elogia gli agenti i quali, ammette, "fanno un lavoro encomiabile, ma bisogna ripensare il sistema". I tossicodipendenti, gli psichiatrici... Bisogna considerare per costoro delle comunità di pena alternativa, è l'appello di Cadamuro, dovrebbero essere accompagnati in altri percorsi. "Il Giubileo può accendere una luce".
Una risposta solo repressiva non è feconda
"Non mi pare che una risposta concepita solo in termini repressivi e punitivi sia una risposta feconda", insiste. "Bisogna riattivare percorsi di prevenzione, di animazione dei quartieri. Noi registriamo una grossissima ripresa, per esempio, della tossicodipendenza tra i giovani. È lì che bisogna fare un¡¯opera educativa, culturale, sportiva", aggiunge. Dal suo punto di osservazione guarda alla crisi generalizzata che pervade tessuti urbani e non e che "accende tutta questa problematicità, compresa l¡¯aggressività. Però - precisa - c¡¯è anche tantissimo bene che viene fatto nelle nostre società e che ha una potenza veramente indiscutibile". Il pellegrinaggio giubilare, reso possibile da una sinergia virtuosa che ha messo in campo tanti volontari, è stato emblematico. C'erano dei rischi, tutti ne erano consapevoli, ma ha prevalso la scommessa in una buona causa: "Io ero abbastanza sereno e devo dire che sono molto contento di come è andata. Nessuno era forzato a far nulla. Ciò che abbiamo raccolto ci dice che l¡¯intuizione era quella giusta, rischio compreso, perché il rischio fa parte della vita".
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