Laos e Myanmar, suore del Bambino Gesù portatrici di speranza per i più fragili
Guglielmo Gallone - Città del Vaticano
«La nostra porta è sempre aperta. Anche se nel villaggio di Alangong, situato nella cittadina di Nyaungdon, a oltre 300 chilometri da Naypyidaw, la capitale del Myanmar, il 97 per cento degli abitanti sono buddisti e ci sono solo 11 famiglie cattoliche dislocate in cinque diversi villaggi. Anche se durante la stagione delle piogge, che cade proprio in questi giorni, a causa delle intemperie i sacerdoti non riescono a raggiungerci e dobbiamo portare a termine da sole il nostro lavoro. Durante il covid non siamo neppure riusciti a celebrare i funerali di due nostri fedeli. E pensare che un tempo i sacerdoti riuscivano a venire a trovarci solo due volte all’anno per dire messa. Oggi, invece, vengono una o due volte al mese. Perché, per noi, nonostante tutto, l’obiettivo è questo: stare qui. Esserci. Essere una famiglia che si aiuta secondo lo stile di vita cristiano»: sono un fiume in piena le due suore del Bambino Gesù che incontriamo al termine del capitolo generale dell’ordine fondato a Rouen nel 1666 dal frate beato di origine francese, Nicolas Barrè. Ce le presenta suor Marina Motta, eletta lo scorso 7 luglio superiora generale delle suore del Bambino Gesù e dunque prima italiana alla guida della congregazione presente in tutto il mondo con circa 400 religiose.
Un contesto complicato
Le due suore missionarie preferiscono però mantenere l’anonimato perché operano in due contesti difficili. Dal 2021 il Myanmar è precipitato in una spirale di violenza e repressione a seguito del colpo di Stato militare e anche in Laos, uno Stato a partito unico, le attività della società civile sono spesso controllate. «Nonostante ciò, dal 2017, cioè quando mi trovo in Myanmar, non abbiamo mai avuto problemi di sicurezza — ci racconta una delle due sorelle — anche se sappiamo di essere sottoposte a un rigido controllo. Noi non vogliamo convertire nessuno né tantomeno operare in senso politico o culturale. Noi abbiamo capito che la principale esigenza degli abitanti di questi villaggi, spesso isolati, situati in mezzo a vaste risaie e abitati da persone in situazione di estrema povertà, è cercare qualcuno che li ascolti e che li capisca».
L'impegno verso le donne
Questa testimonianza ci aiuta a comprendere come sta cambiando il ruolo delle suore del Bambino Gesù in Asia. Arrivata in Laos nel 2017 e in Myanmar nel 2001, grazie all’insistenza di una suora birmana e alla richiesta dell’allora vescovo di Pathein, Charles Bo, preoccupato per il futuro dei bambini, l’équipe missionaria — dopo un primo periodo di stretta collaborazione con la Chiesa locale — si è resa conto dell’urgente necessità di formare e potenziare gli insegnanti locali. Ancora oggi, sono le missionarie a raggiungere le persone nelle zone più remote del Paese. «Incentriamo questa attività sul metodo Montessori — spiega la suora attiva in Laos — cercando dunque di mettere al centro la persona, valorizzandone le qualità, educandole al rispetto reciproco attraverso l’esperienza e la responsabilità. Non è facile perché una scuola, normalmente, dovrebbe avere 24 ore di elettricità. Qui invece l’elettricità, quindi la luce e internet, è disponibile solo per sei ore al giorno». Eppure, le sorelle del Bambino Gesù non demordono e, tenacemente, si rivolgono in particolar modo alle donne perché, spiega l’altra sorella, «in un contesto difficile come quello birmano, segnato da povertà, tensioni politiche e differenze etniche, conosciamo bene le loro fragilità e sappiamo quanto abbiano bisogno di uno spazio in cui riscoprire la loro dignità. Quando si trovano nelle risaie, le donne devono pagare una sovrattassa per il solo fatto di essere donne e di trovarsi a gestire un pezzo di terra. Per loro, come indubbiamente anche per il resto della popolazione, la fragilità e la sofferenza sono elevatissime. Perciò i nostri corsi per formare gli insegnanti locali, incentrati soprattutto sul concetto di leadership, sulla lingua inglese e sul rispetto del Creato, seguono proprio questa logica: non trasmettere nozioni dall’alto, bensì aiutare ciascun insegnante a scoprire il proprio valore e ad agire con autonomia».
Come si fa comunità in Laos e Myanmar
Il fatto che, in Myanmar, delle 90 partecipanti ai corsi solo 8 siano cattoliche — mentre le altre donne sono buddiste, animiste, musulmane o cristiane, e provengano da diverse aree birmane o dai Paesi vicini — rende ancora più evidente la forza di un metodo capace di unire senza omologare. «Noi non saremo qui per sempre — riprende la suora attiva in Laos — perciò sappiamo che la nostra più grande responsabilità è quella di educare i più giovani, specialmente quando sono donne e madri. Non è facile. Noi operiamo nel nord del Paese, lungo il fiume Mekong: qui le strade non sono asfaltate e sono di difficile percorrenza, specie nei periodi delle piogge. Per raggiungere i villaggi a monte o su sponde opposte si dipende da traghetti improvvisati e imbarcazioni private che richiedono tempo, costi e comportano rischi logistici, ma sono l’unico mezzo per andare incontro alle comunità, spesso piccole e autosufficienti, appartenenti a gruppi etnici e quindi a clan diversi. Peraltro, la comunicazione con le aree urbane è rallentata dalla scarsa rete e le notizie arrivano a volte solo tramite visite occasionali di operatori governativi o missionari». In queste condizioni, la missionaria dell’ordine del Bambino Gesù afferma che «noi qui non abbiamo una vera comunità. Celebriamo la messa con i pochi cattolici locali quattro volte all’anno, per Natale, Pasqua, Ognissanti e l’Assunzione. Spesso queste persone hanno paura di essere cattolici e di avere contatti con i cristiani stranieri». Eppure, è proprio in questi contesti che bisogna imparare a cogliere i più piccoli ma più unici segni di speranza: «A testimonianza di una fede che si sta radicando nel territorio, nonostante le tante limitazioni, i seminaristi in Laos, sebbene non siano moltissimi, oggi sono tutti nati qui. E da poco anche le scuole pubbliche si sono interessate al nostro lavoro, chiedendoci di formare gli insegnanti che ogni giorno si rivolgono a milioni di giovani. Noi non chiudiamo mai la porta. Perché il nostro spirito, fatto di missionarietà e di creatività, non morirà mai. E perché Dio è l’unica certezza che, nel profondo, anche di fronte a contesti politici e sociali distanti da noi, non ci abbandona mai».
Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui